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Malta

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MALTA

 

La religione

Per molte cose sembra di stare in Polonia o in Irlanda. Non è possibile divorziare né abortire. In compenso la Chiesa è abbastanza generosa con gli annullamenti e le donne vanno in Inghilterra per abortire. Per altro la demografia è quella di una società mediterranea secolarizzata: natalità bassa, 15/20% di matrimoni civili.

Le chiese sono 365 - una per ogni giorno dell'anno - per lo più oggi chiuse, perché occorrerebbe un esercito di sagrestani e di preti per tenerle aperte. Grandi processioni (un po' pacchiane) per la Settimana Santa, che fanno un po' rimpiangere quelle lugubri e silenziose degli spagnoli. Pare che fino a qualche anno fa non ti seppellivano nel cimitero "normale" se non avevi la tessera regolarmente timbrata dal parroco che attestava frequenza alle messe e comunioni.

In un circolo del Partito laburista (anzi: "kasin" laburista, una specie di piccola casa del popolo dove si mangia a prezzi bassi, e qualità corrispondente, strutture che hanno anche quelli del partito nazionalista, ovviamente) c'era la foto del primo "Senatu" eletto dai maltesi negli anni '50: venti persone in venti foto-tessera rotonde in bianco e nero, di cui quattro con il collarino e la veste talare.

Grande sfoggio di religiosità popolare nei folkloristici autobus di Malta, dove difficilmente mancano i Sacri Cuori affiancati di Gesù e di Maria, ed altre icone sacre variamente "personalizzate". Del resto con la vetustà del mezzo, sempre meglio affiancare alle scarse dotazioni tecniche anche la protezione celeste....

Un negozio di costumi da bagno nel centro di Valletta ha in vetrina solo modelli per signore molto pudiche.

La cucina

In media è piuttosto peggio di quella italiana. Si vede che la consuetudine con gli inglesi non ha giovato: la pasta in genere è scotta, le chips vengono sistematicamente offerte come contorno insieme ad un'anemica insalata, la frutta non te la danno nei ristoranti e si trova solo nei negozi o al mercato, i gelati esibiscono colori pastello un po' troppo pronunciati, pane e biscotti - generalmente molto buoni - vengono però confezionati con grassi di dubbia ascendenza (strutto?, l'olio non si vede molto in giro... dicono che gli arabi abbiano estirpato gli ulivi piantati dai romani, ma potevano ripiantarli, perché è passato molto tempo da allora). Al ristorante ti offrono sempre il burro da spalmare sul pane; il primo giorno ci hanno dato burro irlandese.

Malta a suo tempo produceva pane e biscotti per tutta la Marina britannica, dice la guida del Touring. Oggi produce anche molti conigli (come Ischia). Ma noi avevamo paura che ci rifilassero qualche gatto, e non lo abbiamo mai ordinato. Anche i maltesi per le stesse ragioni preferiscono mangiarlo solo a casa propria.

Il clima, il mare, l'arredo urbano.

C'è molta luce, quando non piove, come in tutto il Mediterraneo del Sud. Molto vento, come di solito nelle isole. D'estate è un po' troppo caldo e si soffre per l'afa (lo scirocco arriva dall'Africa). Il mare è pulito e molto azzurro.

A proposito del clima, nella Cattedrale di San Giovanni c'è tra i monumenti funebri quello del giovane fratello di Luigi Filippo, venuto qui all'inizio dell'Ottocento a curarsi, come molti viaggiatori dei paesi del Nord Europa.

Dell'arredo urbano, si notano subito i balconcini ricoperti, che consentivano alle donne recluse in casa di guardare senza essere viste, ereditati dalla tradizione musulmana e non a caso molto visti anche ad Istanbul. In genere sono contigui ad una camera da letto, e nelle afose notti estive consentono di dormire direttamente sul balcone godendosi un po' d'aria e conservando un minimo di privacy.

Un altro elemento molto visibile, che colpisce subito il visitatore, è quello dei fili elettrici allo scoperto, spesso veri e propri fasci di fili penzoloni sulle facciate delle palazzine, specie quelle meno moderne. In genere l'edilizia "moderna" è senza qualità, molto simile e a volte peggiore di quella che si trova un po' ovunque in altri posti turistici.

La lingua.

Tutti pensano di arrivare in un posto molto anglosassone. Invece, se apri la televisione, parlano in maltese, se entri in una chiesa, il prete predica in maltese (le messe in inglese, per i turisti, ci sono, ma l'elenco è appositamente affisso nelle chiese: insomma è l'eccezione, non la norma). Chi va per imparare l'inglese non si illuda di beneficiare della full immersion. L'inglese lo sanno, se lo hanno studiato. E lo parlano bene se lo hanno studiato bene, poco e male se lo hanno studiato poco e male: insomma è una seconda lingua, anche se molto diffusa e anzi "ufficiale". Racconta una mia amica, italiana cresciuta in Egitto, di avere avuto un maltese come primo insegnante di inglese: i maltesi lì erano assimilati agli arabi, ma l'insegnante non era peggio dell'australiano che lo seguì.

La toponomastica e le insegne dei negozi sono di solito in inglese, specialmente a Valletta, o dove circolano i turisti. Con delle curiose e frequenti eccezioni: "Dolceria appettitosa" recita un'insegna a Rabat, nell'interno. Triq significa "via" nelle targhe stradali.

In genere c'è un tripudio di Q e di K, perché il maltese è per il 75% arabo scritto con l'alfabeto latino, con "prestiti" dall'ebraico e dal fenicio, e l'altro 25% proviene dalle lingue neolatine diffuse nel Mediterraneo, francese, inglese e italiano. Nella storia grazie ai Cavalieri e alle loro svariate provenienze nazionali, oggi grazie alla televisione. Ai Cavalieri va il merito di aver trascritto il maltese in alfabeto latino, facilitandone la comprensione.

Gli inglesi, l'Italia, i Cavalieri.

Gli inglesi si sono trovati qui quasi per caso, ma ci sono rimasti volentieri per un secolo e mezzo, per ragioni militari e commerciali. Esattamente come a Gibilterra. Erano stati chiamati dai maltesi per cacciare Napoleone, che era stato chiamato a sua volta per cacciare i Cavalieri, ma aveva subito approfittato per depredare Malta dei suoi tesori artistici. Una nave francese carica dei capolavori accumulati dai Cavalieri fu affondata da Nelson.

Indubbiamente l'Italia ha perso qualche occasione. Prima l'hanno persa i Borbone, perché Malta voleva tornare con il Regno delle due Sicilie dopo il Congresso di Vienna, ma loro non potevano certo dare un dispiacere all'Inghilterra, che li proteggeva. L'anglicizzazione fu accelerata dopo l'unità d'Italia, per il timore che il nuovo stato unitario esercitasse un'attrazione sui maltesi. Dell'Inghilterra rimane la passione per i circoli, i club (partiti, filarmoniche..) che forse storicamente deriva anche dal fatto che gli stessi Cavalieri erano un'associazione, se vogliamo. 

Un'altra eredità anglosassone (anzi, un'americanata, si direbbe) è quella degli spettacoli tipo "Museo delle cere" con spiegazione pseudo-didattica. Ne abbiamo contati almeno quattro, ma certamente non sono tutti: i Cavalieri e il Grande Assedio, i Cavalieri Ospedalieri (con colori ed odori (?) del tempo), Malta experience, e una rievocazione dell'ultima guerra. Durante la quale Malta ha ricevuto tantissime bombe, e si è difesa anche molto bene (mio padre, che volava su un ricognitore, e per fortuna a Malta non è stato mai mandato, ricorda che di ogni squadriglia mandata a bombardare rientravano con difficoltà appena metà degli aerei: "la loro contraerea oscurava il cielo con i proiettili che sparava...")

Nella preistoria (da 5 a 10 mila anni fa, quindi non troppo anticamente) Malta era attaccata alla Sicilia, quando le calotte polari erano molto più estese di adesso e il livello del mare più basso lasciava scoperti pezzi di terra oggi sommersi. Nei secoli i legami artistici e culturali sono stati molto forti (Caravaggio, Mattia Preti, ecc.). La borghesia tradizionale (avvocati, professionisti) preferisce esprimersi in italiano. Infatti la Camera degli Avvocati maltesi si chiama così e non Chamber of Law. Entrando in un circolo musicale abbiamo visto scritte in italiano. Insomma, almeno fino a qualche decennio fa, l'italiano era la lingua della cultura e l'inglese quella del commercio. 

Oggi non c'è (o almeno non lo abbiamo visto) nessun centro culturale italiano. C'è solo importazione di alcuni prodotti (specie alimentari, di auto se ne vedono invece molte giapponesi, forse importate dall'Inghilterra) e molti turisti italiani in estate. C'è il Casinò di Venezia a Malta, in un bel palazzo restaurato a Birgu (o Vittoriosa, secondo la toponomastica tradizionale), che pare serva a riciclare i soldi della mafia.

I laburisti sono contrari all'ingresso nell'Unione europea, perché sognano velleitariamente per Malta un futuro da Svizzera del Mediterraneo. I salari (circa un milione al mese) sono però relativamente alti: la Thomson ha recentemente chiuso uno stabilimento con 3 mila occupati per delocalizzare in Marocco. Negli anni '80 hanno tentato di lanciare l'economia maltese con l' "off-shore" e attraendo investimenti stranieri. Non è stata però una scelta di lungo respiro. Oggi Malta ha 380 mila abitanti, che non sono pochi in una superficie abbastanza piccola.


Da consultare:

i rapporti dell'UE sulla situazione di Malta in vista dell'allargamento, previsto per il 2004.
Il sito del Governo maltese.

Emilia

 


 

Questa volta Emilia ci parla di una sua visita in Giappone.

Cartoline dal Giappone

La prima cartolina che vorrei mandare dal Giappone è quella di un mappamondo con al centro il Pacifico, come usa qui. La prima volta che l’ho visto ero disorientata: l’Europa era una piccola propaggine in alto a sinistra, l’Italia meglio non cercarla nemmeno. Si rimane un po’ irritati: guarda questi giapponesi come sono nippocentrici. Ma subito dopo ti viene in mente che, in effetti, qualsiasi rappresentazione su un piano di una superficie sferica è parziale, e quella che usiamo noi non lo è meno della loro. Ero eurocentrica e non me n’ero mai accorta.

Eppure sono ritornata dal viaggio in Giappone sentendomi ancora più europea di quando ero partita (il viaggio fu nell’ormai lontano agosto del 1992, ed ho scritto questi appunti poche settimane dopo). L’effetto di spiazzamento che ogni viaggio un po’ ti dà, qui è moltiplicato esponenzialmente. In America o in Africa, grazie al passato coloniale e all’eredità dei rapporti culturali di allora, può capitare di sentirsi a volte in un’estensione dell’Europa. Per sentirsi veramente “altrove”, bisogna venire in Asia, anzi nell’Estremo Oriente, come si diceva una volta. Qui, in confronto agli ideogrammi, anche l’alfabeto cirillico sembra quasi comprensibile e, rispetto alle non-religioni del Giappone, i musulmani potrebbero apparire dei fratelli separati. Si è circondati di segni incomprensibili, di suoni che, anche quando sono trascritti nell’alfabeto occidentale, ci si dimentica nel giro di un minuto, perché manca ogni connessione con qualcosa che abbia un senso e che risulti familiare.

Lo spaesamento è anzitutto una sensazione fisica: a Tokio le strade non hanno nome e gli edifici sembrano tutti uguali. L’anonimato delle strade sembra essere la sopravvivenza di un antico accorgimento per difendersi dagli invasori: e dovevano riuscirci benissimo, se vale la mia esperienza! Durante l’occupazione, gli americani avevano messo le targhe, ma quando loro se ne andarono, i giapponesi le tolsero.

L’aspetto delle città è completamente moderno, se si escludono i templi, sia perché lo sviluppo economico e urbanistico è relativamente recente, sia perché i bombardamenti americani hanno distrutto molto salvando solo Kyoto, sia perché si costruiva spesso in legno, materiale deperibile per definizione, e soprattutto perché gli stessi giapponesi sono molto meno attaccati di noi alle cose antiche. Vi sono, ad esempio, quattro grandi santuari shintoisti che ogni vent’anni (approssimativamente il tempo di una generazione) vengono distrutti e ricostruiti. Anche questa modernità onnipresente ti confonde: finché non lo si assume in dosi così massicce, difficilmente ci si rende conto di quanto il moderno sia tutto uguale ed indistinguibile.

Ma c’è anche uno spaesamento culturale. Ci si accorge di condividere con queste persone le stesse tecniche, gli stessi utensili, lo stesso livello di vita e la stessa salute (anzi, un po’ meglio la loro, visto che riescono a vivere più a lungo di noi, nonostante i loro pesantissimi orari di lavoro). Ma nella cultura media giapponese non c’è il cristianesimo, non c’è l’illuminismo, non c’è il marxismo. Sottolineo “nella cultura media”, perché vi sono importanti minoranze di giapponesi cristiani ed un partito comunista giapponese relativamente numeroso.

Vorrei cercare di spiegarmi meglio. Un europeo può essere ateo, post-moderno e post-industriale, ma con quelle idee deve fare i conti, in qualche modo esse continuano a stargli dentro, trasformate in senso comune. Rientra nel nostro senso comune, ad esempio, un certo universalismo, che è un’eredità cristiana, e che è cosa ben diversa dalla lealtà al gruppo di appartenenza, così sentita in Giappone. Come anche rientra nel nostro senso comune l’idea che la società sia attraversata da conflitti e che ciò sia garanzia di vitalità e di evoluzione, idea che ha una qualche parentela col marxismo. In Giappone, il confucianesimo trasmette invece l’ideale dell’armonia, che non è il risultato della composizione del conflitto, ma è la rinuncia alle istanze dell’individuo, chiamato ad uniformarsi alla norma del gruppo o di chi nel gruppo ha un ruolo legittimo di comando.

Quella giapponese è una società enormemente secolarizzata. Le religioni non sembrano orientare la coscienza dei loro fedeli, anche perché l’individuo, e quindi gli atti dell’individuo, contano abbastanza poco. In particolare, quella dello zen è la via all’annullamento dell’individuo e delle sue contingenti sensazioni. Noi occidentali invece in questa contingenza siamo immersi fino in fondo, nei nostri peccati, nelle nostre passioni individuali, nei nostri personali itinerari. Di solito si dice che la società giapponese sia priva del senso di colpa (che nasce nel rapporto fra l’individuo e la propria coscienza), ed invece si fondi sul senso di vergogna, che deriva dal sentirsi inadeguati alle richieste del proprio gruppo. Da ciò la frequenza del suicidio, che è l’auto-annullamento definitivo di chi si sente fallito.

In Giappone sono molto importanti le cerimonie e i riti, e l’identità collettiva che si crea intorno ad essi. Ma attenzione, la domenica non si va al tempio: la religione non è occasione di socializzazione “a parte”. E del resto i giapponesi non si fanno scrupolo di attingere senza riguardo a tutte le specie di riti: per la nascita allo shintoismo, per la morte al buddismo, per il matrimonio al cattolicesimo (e la chiesa cattolica si presta volentieri, offrendo un rito di benedizione speciale).

Mi è capitato di assistere un paio di volte alla cerimonia del tè. Chi vuole impararla frequenta per anni il maestro o la maestra. In un monastero buddista femminile, le monache, vestite con kimoni neri e con la testa rasata, ci hanno descritto minuziosamente i gesti che deve fare chi beve il tè: ad esempio, le rotazioni della tazza sono differenziate nella lunghezza e nel verso, secondo se chi beve il tè è un uomo o una donna. La monaca-badessa mi sembra abbastanza smaliziata: dice che il tè per il nostro gusto è un po’ amaro, ma bisogna berlo tutto senza lasciarne neanche una goccia, e contiene anche molta vitamina C. Ci ha dato il permesso senza problemi di fotografare l’altare buddista (ed è l’unica ad averlo fatto). Ci ha detto di essere stata molto tentata dal marxismo in gioventù.

Esistono anche scuole medie superiori dove ci si specializza nell’ikebana, l’arte di produrre composizioni floreali, scuole frequentate soprattutto da ragazze. Sono le donne le principali custodi di queste raffinate tradizioni e le artefici della calorosissima (e impegnativa) ospitalità giapponese. Molte donne giapponesi rinunciano ancora al lavoro per crescere i figli, anche se molto meno di una volta. Il matrimonio è praticamente obbligatorio e spesso combinato, i singles non esistono ed anche i monaci possono essere sposati. I bambini sono importantissimi e la loro educazione, specie in senso scolastico, è un impegno cruciale per le madri. 

I ragazzi giapponesi hanno il tasso di scolarità forse più alto del mondo: praticamente tutti frequentano la scuola media superiore. Bisogna però capire meglio la qualità della scuola giapponese. Arrivando in Giappone, pensavo che tutti parlassero inglese, ed invece non è affatto così: per trovare un passante che parli un po’ di inglese, bisogna selezionarlo accuratamente in base all’età e alla presumibile professione. Una ragazza che fa la segretaria mi ha detto di aver fatto all’università un corso per segretarie. La protagonista di Kitchen, uno dei libri di Banana Yoshimoto, finita l’università, trova un lavoro – coerente con i suoi studi - come assistente di una grande cuoca. Insomma all’università trovano posto anche corsi che noi riserveremmo al massimo alla formazione professionale.

La lingua giapponese. Può sembrare strano, ma sentendo parlare un giapponese, si coglie una serie di suoni molto simile a quelli dell’italiano, sia pure con una frequenza maggiore di alcune vocali e minore di altre, fra cui la “e”, anche se i suoni sono accostati in vocaboli per noi privi di alcun significato, tranne che per i pochi che hanno studiato la lingua giapponese. Per esempio, la parola italiana “grazie” si dice in giapponese “arigatò”, che potrebbe essere tranquillamente una parola italiana, dal punto di vista fonetico. Esistono anche dei “prestiti” dall’italiano al giapponese, come la parola “tegame” oppure “ombrello”. La parola “tempùra”, che indica un piatto tipico di verdure fritte, risale alle Quattro Tempora, tempo quaresimale in cui non si poteva mangiar carne. E prima della chiusura del Giappone ai rapporti con gli stranieri, vi furono contatti con portoghesi e olandesi.

Leggere e scrivere per un giapponese sono competenze molto complesse da acquisire, soprattutto la scrittura, che sconfina con il disegno e la pittura. Ho sentito dire che i giapponesi tornati nel loro paese, dopo un lungo soggiorno all’estero, hanno bisogno di reimparare a scrivere e seguono corsi appositi. Quali conseguenze può avere per un bambino l’apprendimento di questa bellissima, ma complicatissima scrittura? Forse l’abitudine alla pazienza e all’ostinazione necessarie per fare le cose più difficili, atteggiamento che dovremmo rispettare di più nei giapponesi. Ma c’è anche un’altra conseguenza: una fetta molto grande di questo lungo “tempo scuola” viene occupata dallo studio dei quattro alfabeti usati in Giappone (compreso il nostro), con l’inevitabile sacrificio di altre materie. 

Fra le materie che non si studiano c’è la religione, perché quello giapponese è diventato uno stato laico dopo l’abolizione, voluta dagli americani, dello shintoismo come religione nazionale ed imperiale, ma non si studia neanche il pensiero filosofico. E l’insegnamento della storia avviene con criteri molto discutibili: il nazionalismo sopravvive nei silenzi dei libri di scuola, dove si parla poco o niente della disastrosa sconfitta, e soprattutto delle responsabilità del Giappone nell’ultima guerra mondiale. La stessa bomba atomica è un tabù nazionale: i sopravvissuti hanno penato molto ad ottenere dallo stato l’aiuto di cui avevano bisogno, perché essi stessi sono la personificazione della sconfitta, e quindi della vergogna. Niente di simile al sofferto percorso della Germania dopo il nazismo.

Un’ultima impressione. E’ difficile che un giapponese sia andato in vacanza in un altro stato asiatico, come la Corea, l’Indonesia, o la Tailandia, anche se questi paesi geograficamente sono per lui molto più vicini degli Stati Uniti, delle Haway o dell’Europa, dove invece i turisti giapponesi si dirigono più frequentemente. Sarebbe come se noi italiani non andassimo in Francia, in Austria o in Grecia. Il rapporto del Giappone con gli altri paesi dell’Asia rimane insomma piuttosto difficile, e loro amano specchiarsi più volentieri nei paesi occidentali che in quelli orientali. E in generale si ha l’impressione che “loro” conoscano “noi”, molto meglio di quanto noi conosciamo loro.

Per saperne di più:

  • alcune pagine del sito di Fosco Maraini 

  • un reportage di Folco Quilici sulla memoria dei caduti in guerra

  • un libro piccolo e facile, ma dove c’è l’essenziale:
    Angela Terzani Staude, Giorni giapponesi
                                       Ed Tea, € 8.

Emilia

 

 

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