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Vedi la sezione LUOGHI nel mio blog:

Viterbo, verso il quartiere medioevale
Al Museo etrusco di Viterbo
14 febbraio: San Valentino. Una passeggiata a Roma
Roma, continua…
Chia e la torre di Pasolini
Corciano e il presepe di ceramica in grandezza naturale
Una visita a Calvi dell’Umbria
Quattro giorni a Parigi (in quattro) 

 
 

 

Questa rubrica è nata grazie al contributo di alcune amiche, con le quali siamo invitati a condividere esperienze ed emozioni derivanti dall'incontro con ambienti e culture più o meno lontane.

 

 

 


Dalla Thailandia all'Australia

Bangkok e la Thailandia

Quando si esce dall’aeroporto di Bangkok più che nella città degli angeli, questo è il significato in lingua thai di Bangkok,  sembra di trovarsi in un girone dell’inferno dantesco: cielo coperto da una spessa nube di smog giallastro, odori nauseabondi causati dal misto dei cibi cucinati in ogni angolo di strada, traffico da capogiro ed un’orda di nativi e di turisti presi dallo shopping compulsivo,  che ti imprigionano in un angolo del marciapiede sino a quando non capisci che non è il caso di fare tanto gli educati, perché potresti passare il resto della tua vita lì, e cominci a sgomitare per uscirne fuori.
 
Terribile, pensi, e non vedi l’ora di lasciare alle tue spalle  tutto questo bailamme!
Per fortuna ci sono gli amici thailandesi di mio figlio che, gentilmente, si sono offerti di farci da guida nelle escursioni nelle vicinanze della città.  Sono stati tre giorni intensi, con sensazioni ed esperienze uniche in una civiltà così diversa dalla nostra, permeate da ricordi di film e di letture fatte in gioventù.

Il luogo più tipico di contrattazione commerciale della Thailandia è sicuramente il mercato galleggiante.

Oggi, purtroppo, i mercati galleggianti tendono a scomparire sostituiti da una forma più edulcorata ma anche più falsa per i turisti e dai grandi stores, pieni di articoli taroccati ed a poco prezzo che sorgono in tutta Bangkok.
Ma ve n’è uno, di questi mercati galleggianti, rimasto fedele a se stesso: quello di Damnoen Saduak.  
Qui, ogni mattina i contadini portano frutta e verdura dentro i grandi cesti sui loro piccoli sanpam e qui, ogni mattina gli abitanti dei canali con case a palafitte  vengono a comperare, banane, ananas, cocchi, papaye, manghi, cantalupi, pompelmi e…..peperoncini, tanti, tantissimi peperoncini perché qui ogni pietanza ha bisogno del suo peperoncino dalla zuppa al dolce.

Il mio piatto preferito thailandese è, infatti, il tom yum kung, una zuppa agrodolce di gamberetti con coriandolo e tanto peperoncino da togliere il fiato. Qui le contrattazioni avvengono da un sanpam all’altro e non si fa solo la spesa ma anche un po’ di gossip benevolo sui vicini e sull’intero villaggio.
Forse si combinano anche affari e matrimoni, chissà,  ed i canali diventano la piccola agorà di tutta la comunità.

Andando verso nord si arriva a Kanchanaburi, che oggi è una tranquilla e ridente cittadina ma che durante la seconda guerra mondiale fu teatro delle spietate e brutali condizioni di vita in cui i Giapponesi tenevano i prigionieri inglesi ed  australiani costringendoli a lavorare alla “ferrovia della morte” che doveva congiungere la Thailandia alla Birmania per evitare il blocco dei rifornimenti via mare dal Giappone attuato dagli americani.
Si dice che per ogni traversina allocata sia morto un prigioniero fra stenti, malattie tropicali e lavoro massacrante. Chi di Voi ha letto “ Il ponte sul fiume Khwai” oppure “Una città come Alice” ricorderà sicuramente il fatto.


Trovandomi nel cimitero di guerra di Kanchanaburi non ho potuto trattenere le lacrime  davanti alle 7.000 piccole tombe di ragazzi tra i 19 ed i 35 anni che in quel posto, tanto lontano da casa, avevano perso la vita perché la nostra fosse migliore.  Oggi il ponte sul fiume Khwai, situato a nord della città, è  un ferro vecchio su  cui passa solo  il treno che congiunge Kanchanaburi a Nam Tok.

 

 

A pochi kilometri da Kanchanaburi sorge il Tempio delle Tigri. 

 

 

E’ un antico monastero buddista in cui i monaci, alcuni anni fa, raccolsero un cucciolo di tigre rimasto orfano e lo allevarono, nutrendolo solo con carne di pollo bollita. Oggi le tigri sono più di venti tra orfani adottati e cuccioli nati in cattività; i monaci si sono presi cura di loro e sono mansueti come gattini.
Si mantengono con il turismo generato dalla curiosità di questa vicenda: si possono fare fotografie , avvicinarli ed addirittura accarezzarli con  l’aiuto dei monaci e dei volontari che arrivano qui da tutte le parti mondo per capire come  sia stato possibile un adattamento così straordinario, sono quasi tutti studenti che studiano il comportamento animale.

Dalle tigri agli elefanti. Come rinunciare ad una passeggiata a dorso di elefante e sentirsi Sandokan?
In ogni parte della Thailandia trovi i giardini degli elefanti organizzati a questo scopo.

 

Gli elefanti sono animali molto perspicaci: una prova ne ha avuta mio marito, quando al termine della passeggiata ha voluto offrire all’elefante un caschetto di banane per ringraziarlo; uno dei nostri accompagnatori thailandesi ha messo sulla proboscide dell’elefante, tra una banana e l’altra, una banconota che l’animale (per modo di dire) ha prontamente passato al suo conducente.

 

 

 

 

 

 

 

Bisognava pur rendere omaggio a Bangkok e ringraziare gli amici thailandesi che tanto ci tenevano a che vedessimo il Grand Palace.
Ci siamo quindi recati, la mattina dell’ultimo giorno in Thailandia, al Wat Phra Kaeo, un complesso templare all’interno dei muri di cinta del Palazzo Reale.

Per rispetto dei nostri ospiti ci siamo inchinati, scalzi, davanti al Budda di smeraldo, portando in dono ghirlande di orchidee rosa, candele e bastoncini di incenso ed è stato in quel momento, guardando quelle persone che pregavano il Budda che ho capito che tutte le religioni hanno un fattore in comune: la ricerca di se stessi, attraverso la preghiera, attraverso le richieste di grazie attraverso il contrasto tra la cultura morale in cui viviamo e la nostra etica personale.

 

 Arrivederci Thailandia, arrivederci Terra del Sorriso.

 

 

Sensational Sydney


Arrivando a Sydney con l’aereo non si ha l’impressione della città come viene vissuta nel resto del mondo: Sydney non si alza in verticale ma si estende in orizzontale.
Difficilissimo è trovare un condominio poiché gli australiani, ricchi di un territorio  immenso rispetto al numero degli abitanti, preferiscono abitare una piccola casa ad un piano immersa nel verde di un giardino che è la propagazione delle grandi foreste pluviali che fanno da polmone alla città galleggiante nelle splendide lagune blu.

L’impatto ambientale è  minimo, non esiste né inquinamento acustico nè tanto meno luminoso. Così l’opossum diventa il gatto di casa ed i grandi pappagalli, appesi ai rami degli alberi del giardino casalingo come frutti maturi, sostituiscono i canarini in gabbia.


Il popolo australiano ha un rispetto ed una cura immensa del territorio che abita sino a diventare crudele: ogni pianta ed ogni animale malato devono essere lasciati al loro destino per non alterare l’equilibrio naturale.
Per contro non si tirano indietro nell’adozione di un piccolo  di canguro o di vombato, rimasti orfani, e li curano amorevolmente sino a che non siano abbastanza autosufficienti da riprendere la loro vita selvaggia  nella foresta o nel deserto.

 



Il fatto di sentirsi così integrati con l’ambiente naturale, credo che derivi dall’abitudine di vivere all’aperto, considerando l’abitazione come un semplice rifugio notturno: si mangia in giardino, si cucina in giardino su i barbecue, si ricevono gli ospiti e si fa la siesta in giardino, i bambini giocano e fanno i compiti in giardino: tutto ciò e reso possibile da un clima caldo o temperato in tutto l’arco dell’anno.
Il barbecue è una vessillo nazionale , ve ne sono a decine nei parchi ed intorno ad essi socializzano , il sabato, le famiglie australiane.

Solo il centro della città di Sydney, in verità abbastanza piccolo, è costituito dai grattacieli che ospitano gli uffici, i negozi, i teatri, le gallerie d’arte, i ristoranti o i grandi alberghi.
La grande arteria di George Street lo divide in  due, equamente, per terminare nel Circular Quay.

Il Circular Quay è, secondo me, il luogo più simpatico del mondo: è la banchina del porto su cui attraccano le grandi navi da crociera che provengono dagli Stati Uniti ed i traghetti che collegano la periferia di Manly al centro urbano.

Vi è sempre un gran via vai di gente, la più disparata che passeggia (e quando dico passeggia vuol dire che non cammina freneticamente come facciamo noi nelle nostre città) ma si ferma  ad ascoltare  i concerti di musica live che vi si tengono o a guardare i saltimbanchi e gli acrobati  bravissimi che vi adattano uno spettacolo o semplicemente ad ammirare il panorama che è davvero insuperabile, specialmente la sera, con l’Harbour Bridge che chiude un  lato della banchina e l’Opera House che ne termina l’altro davanti alla baia di Sydney.

Sulla sinistra del Circular Quay, venendo da George Street, vi è il quartiere vecchio di Sydney, The Rocks, con i suoi piccoli negozi di antiquariato ed i suoi pubs “vecchia Inghilterra”.
Sulla destra si estendono i Reali Giardini Botanici con l’antica dimora del Governatore della città.
L’Harbour Bridge collega Sydney da nord a sud ma vi è un altro ponte altrettanto imponente che la congiunge da est ad ovest: l’Anzac Bridge.
La parola ANZAC fu coniata durante la Prima Guerra Mondiale ed è un acronimo che sta per Australian and New Zeland Army Corps. Formato nel dicembre del 1914, il Corpo vide la sua prima azione a Gallipoli in Turchia il 25 aprile del 1915: vi persero la vita 10.000 soldati. L’Anzac Bridge li ricorda e su di una targa sul ponte è scritto : Lest we forget.

Scendendo a destra dell’Anzac Bridge vi è il famoso Fish Market : una gioia per gli occhi dei gourmet di tutto il mondo. Decine di metri quadrati di  salmoni, ostriche, barramandi, aragoste, tonni, granchi, polpi ecc.




Si può scegliere il pesce, farlo cucinare e mangiarlo direttamente lì, con poco più di dieci dollari hai un pranzo da re.
Le spiagge di Sydney sono immense, dorate, pulitissime ma il mare è solo per i surfisti.

 

 

 

 

 


Withehaven beach


I fondali sono bassi ma le altissime onde oceaniche e le forti correnti impediscono di fare il bagno a chi non è abituato a questi lidi perché sarebbe schiacciato e risucchiato dalle onde.
In compenso in ogni spiaggia di Sydney, nel posto più tranquillo, vi è sempre un enorme piscina di acqua marina in cui si può prendere il bagno senza neanche la paura degli attacchi degli squali.

Se andate a Sydney nel periodo tra luglio ed ottobre potrete assistere al passaggio delle balene a Capo Barrenjoey: uno spettacolo unico. Una stranezza: Capo Barrenjoey ha proprio la forma della coda di una balena.
Arrivederci sensazionale Sydney! Cosa altro potrò scoprire di te la prossima volta?

 

La mia Australia

A  Sydney, nella piazza sottostante l’Opera House, sul marciapiede, vi è una targa che ricorda la visita  di Umberto Eco in Australia nel 1982.
Vi è riportata una frase che lo scrittore italiano disse in occasione di tale evento: “ l’Australia è lontana dagli antipodi, è lontana dal resto del mondo, talvolta è lontana anche da se stessa.”
Il testo è intrigante, anche se un po’ oscuro, ed io , ho provato a vedere l’Australia attraverso le parole di Eco.

La natura è selvaggia, lussureggiante ed esagerata e manca di quella definibilità ed armonia che trovi in altri paesi: i deserti non sono mai completamente deserti, le montagne mai completamente montagne, le foreste mai completamente foreste.



Gli animali sembrano venir fuori da epoche arcaiche ed alcune parti dei loro corpi sono sproporzionate rispetto al resto: o troppo grandi o troppo piccole o troppo corte o troppo lunghe. Anche i richiami degli uccelli, dal piumaggio sgargiante, sono strida prive di musicalità e ricordano le sonorità e le assonanze delle balene.

Tutto sembra una messa in scena camuffata da naturalità, dai canguri di Pebbles Bay, all’arrivo dei pinguini a Phillip Island, alla foresta pluviale di Otway.
La teatralità raggiunge il suo culmine a Ballarat, in cui è stata ricreata una città nella città dove si rappresenta, giorno dopo giorno, la vita dei primi cercatori d’oro.

Poi arrivi ad Ayers Rock: dapprima pensi che è una “taroccata” come le altre, con i suoi alberghi nascosti nel verde, i negozi di “ricordini”, i ristoranti e le piscine ma quando ti trovi di fronte la montagna sacra di Uluru, splendida come un opale del deserto con i suoi cambiamenti di colore incandescenti, dal rosa al rosso al viola al bleu al nero, ti coglie un sentimento di devozione e resti muto immaginando come deve essere apparso al primo occhio umano, dopo l’immensa distesa desertica, questo monolite.


Allora capisci perché gli Aborigeni richiedano un atteggiamento di rispetto per la sacralità del luogo: sei arrivato all’ombelico del mondo tutto parte da qui e tutto ritorna qui, la tua povertà spirituale si evidenzia qui più che all’interno delle grandi cattedrali europee; se non sei in armonia con la natura dall’uomo, agli animali, alle rocce ai fili d’erba non puoi essere in armonia con te stesso.

Percepisci perché gli Aborigeni ti preghino di non fotografarla e di non fotografarli: nella fotografia si può perdere veramente la propria anima perché si guarda con gli occhi che sono una parte dei nostri sensi, ma non si guarda con il cuore, con le sensazioni ed i sentimenti provati in quel momento, con i propri convincimenti che possono mutare in quello sguardo.

Ritorni all’Opera House, un sabato pomeriggio e, tra la folla festante per il giorno feriale, t’imbatti in un Aborigeno che suona il didgeridoo riproducendo i suoni della foresta.

Lo fa per pochi spiccioli e per due dollari si fa anche fotografare. Lo fotografi con l’amaro in bocca nel vedere la saggezza e la dignità sopraffatte dall’indigenza.
La sera, scaricando le foto nel computer, ti trovi davanti la fotografia di quell’uomo e scopri nei suoi occhi uno sguardo lontano……………e rivedi come in uno schermo i canguri che corrono, i koala che si arrampicano sugli alberi, i rigurgiti paurosi dell’oceano, le grandi distese desertiche, il suono rauco dei KuKabarra e……la montagna di Uluru.
Comprendi perché gli Australiani amino tanto questa loro terra: in questa natura antica la speranza dell’uomo nel futuro si rivela più che in  ogni altra parte del mondo.

 

Mon Repos e la nascita delle tartarughe

Proseguendo a nord di Hervey Bay si incontrano la cittadina di Coolum, con le sue immense distese verdi di campi da golf e l’Australia Zoo di Steve Irwin. 
A circa 300 km. da Brisbane si entra a Bundaberg, l’accesso meridionale alla grande barriera corallina australiana che si estende per 2.000 km.
A soli 15 km da Bundaberg, vi è uno dei più importanti luoghi di nidificazione delle tartarughe marine del pacifico meridionale: la Mon Repos Beach.

Siamo arrivati sulla Mon Repos Beach alle 21,00, l’accesso alla spiaggia era pieno di bambini. Vi erano intere famiglie con due o tre bambini, alcuni piccolissimi, portati a spalla dai papà: ed era buffo vedere gli opossum che se ne andavano su e giù per gli alberi portando sulla groppa i loro piccoli e confrontarli con i papà: sembravano avere entrambi la stessa preoccupazione, quella di non perderseli.
Alle 22,00, con in testa i rangers con le torce, il nostro gruppo si è inoltrato lungo la spiaggia: non si vedeva niente per terra, poteva esserci anche un coccodrillo marino e non ce ne saremmo accorti, si sentiva soltanto il frangersi delle onde dell’oceano sul bagnasciuga e si era abbagliati dalle stelle così enormi nel cielo da sembrare di poterle toccare.
Non sapevamo a quale tipo di evento avremmo assistito e neanche se avremmo assistito ad un evento: la natura ha i suoi tempi e non è così scenografica da rispettare i tempi di un pubblico, comunque avvertivo molta aspettativa e molta emozione tra noi.

I rangers che proteggono l’area di Mon Repos segnalano con delle bandierine i nidi per poterli difendere dai predatori: dingo e volpi che sono ghiotti di uova di tartaruga.
Da novembre ad aprile le grosse testuggini emergono dal mare per venire a deporre qui le loro covate, alcune di loro sono nate su questa spiaggia ed loro acuto senso di orientamento qui le riporta.
Fanno buche profonde 80 cm. circa e depongono dalle sessanta alle ottanta uova. Solo 1% delle tartarughine arriverà all’età adulta!

Sapevate che il sesso dei nascituri è determinato dal calore della sabbia? Se la sabbia è molto calda nascono femmine, altrimenti sono maschi!

 

In cerchio, intorno alla bandierina, aspettavamo un segno, il silenzio era totale, poi, la sabbia ha cominciato a scivolare come inghiottita da un imbuto e ne sono venute fuori, quattro, sei, dieci, e ancora, e ancora e ancora fino a sessantadue: i babies annaspavano e cercavano la via del mare:i rangers ci hanno schierato in un lungo corridoio sino al bagnasciuga e tenendoci per mano abbiamo assistito alla loro corsa frenetica dal nido al mare,e le abbiamo salutate commossi dalla pervicacia e dall’attaccamento alla vita di queste piccole creature, noi che il più delle volte la vita  la disprezziamo come dimostra l’estinzione di alcune specie animali, vegetali ed anche umane dovute all’opera dell’uomo.  

 

Fraser Island

L’isola di Fraser si trova nel Queensland australiano, di fronte alla cittadina di Hervey Bay, a 100 Km. circa da Brisbane.
E’ la più grande isola di sabbia esistente sulla Terra e per  questo e per il suo ecosistema è stata dichiarata patrimonio universale dell’Unesco. Era abitata dall’etnia Butchulla, ormai scomparsa, che le aveva dato il nome di K’gari che significa Paradiso.

Siamo arrivati sull’isola in una calda mattina di febbraio, dopo due ore di traghetto  da Hervey Bay. La locale guardia forestale ci ha subito tenuto una lezione di sopravvivenza di circa un’ora: come guidare un  4WR, come affrontare un dingo o un gruppo di dingo, come evitare i serpenti velenosi , come cercare di non scontrarsi con i piccoli aerei che atterrano sulla spiaggia.
Dulcis in fundo non si può fare il bagno nell’oceano a rischio di diventare cibo per pescecani che da Indian Head si vedono gironzolare ad occhio nudo intorno all’isola.
Tutto questo perché i soccorsi rapidi, vista la particolare conformazione dell’isola, non sono possibili per cui se ti trovi nelle peste te la devi cavare da solo.
Siamo usciti fuori dalla sala di proiezione non molto sereni. Ci hanno issato su di un fuoristrada e siamo partiti, mio marito, mio figlio ed io.
Dopo circa un Km. di strada (si fa per dire: un’ incredibile e strettissima serie di dune di sabbia su cui passa una macchina alla volta, esistono delle piccole rientranze ogni due Km. se ci si dovesse incontrare con qualcun altro, cosa abbastanza rara per fortuna) aggrappati con una mano al sedile  per non essere sbalzati fuori dalla vettura e con l’altra a tenersi il cappello per non perderselo  siamo sbottati tutti e tre in un'unica domanda a voce alta: “Ma chi  è stato quel cretino che ci ha consigliato una gita su quest’isola?”.
La cosa è stata talmente comica che siamo scoppiati a ridere e ci siamo rilassati godendoci le non poche meraviglie naturali di cui è ricca Fraser Island e l’avventura.

La foresta pluviale che fa da bordura alla strada è lussureggiante ed il sole che filtra attraverso i rami degli alti alberi dipinge chiazze d’oro sulle felci maestose del sottobosco.
E’ vero che non ci si può bagnare nell’oceano ma vi sono  piccoli laghi di acqua dolce, trasparente e azzurrissima, come il McKenzie e il Wabby, dove puoi nuotare insieme alla tartarughine , accarezzarle e prenderle in mano.
Puoi correre con l’auto per chilometri di spiaggia deserta sentendoti come nel film “Il pianeta delle scimmie” e aspettando di trovare da un momento all’altro la testa mozzata della Statua della Libertà , in realtà, ti trovi, di fronte,  solo un aereo che sta planando sulla tua testa e devi sterzare velocemente.

A nord dell’isola puoi vedere branchi di cavalli selvaggi e la varietà e la bellezza degli uccelli è davvero incomparabile. Di dingo nemmeno l’ombra.

Sulla strada del ritorno abbiamo avuto una piccola avventura: l’auto di alcuni abitanti della Nuova Caledonia si era insabbiata ed ostruiva la strada. Dietro a noi sono sopraggiunti degli australiani e dopo un’ora circa di lavoro con le piccole pale forniteci alla partenza dalla guardia del parco , tra commenti in italiano, francese ed inglese siamo riusciti a liberate le ruote della macchina dei caledoniani.
Grandi strette di mano ma nel frattempo si era fatto tardi per prendere il traghetto. Sudati e senza fiato siamo arrivati sul pontile e lì ci hanno raggiunto le urla d incitamento e di tifo dei passeggeri: ci avevano aspettati anche se eravamo in ritardo di quasi 20 minuti.
Con un sospiro di sollievo, stanchissimi ma entusiasti siamo stramazzati sulle panchine del ponte! Che giornata ragazzi! 

 

Lady Musgrave Island

E’ una piccolissima isola, 8 Km. di diametro, che si trova nella barriera corallina australiana: a circa 80 Km. di fronte alla spiaggia di Agnes Water.

Si parte con un aliscafo dal piccolo porto di 1770, si chiama proprio così seventeen seventy perché ci approdò Cook nell’anno 1770 nelle sue ricerche intorno al continente australe, ed in poco più di un’ora si arriva in questa specie di grande piscina naturale in mezzo all’oceano Pacifico.

 

 

 

 

Ti vengono incontro le grandi tartarughe marine ed improvvisamente pensi di far parte di un documentario televisivo come ne fanno su National Geographic  o su Lovely Travel.

Si scende su di una piattaforma di legno, unico manufatto dell’intelligenza umana in quel luogo  e, con piccoli gommoni si viene trasportati sull’isola: si incontrano solo alberi ed uccelli, è un paradiso naturale: camminando lungo il bagnasciuga di pietrisco bianchissimo vedi le pinne dei pescecani di barriera  come tante piccole vele aggirarsi intorno all’isola: i pescecani di barriera non attaccano l’uomo e quindi si può nuotare, fare immersioni o snorkeling. Sull’aliscafo ti passano le maschere la muta e le pinne.
Sotto la superficie del mare c’è tutto un mondo da scoprire: pesci di tutte le grandezze dai colori sgargianti, barracuda, tartarughe che ti sfiorano i fianchi e... pescecani che si nascondono negli anfratti  delle grandi statue di corallo.

 

 

 

Il punto più profondo è di 15 metri ma l’acqua è talmente limpida che pur restando in superficie hai la sensazione di toccare il corallo allungando una mano.
Sulla piattaforma di legno ci sono tavoli e panche e lì si pranza a turno. Tutto si svolge in maniera molto informale e ti ritrovi a far amicizia con tutti quelli che hanno partecipato alla gita: abbiamo conosciuto una signora scozzese simpaticissima che aveva soggiornato a Torino per due anni e rimpiangeva tantissimo il gelato italiano. Ci sono famiglie intere con neonati e gruppi di giapponesi che fotografano tutto.
Una curiosità: l’sola prende il nome da tale Lady Musgrave che divenne famosa per i magnifici tè che offriva  ai nobili inglesi che si trovavano in Australia.

Marzo 2010
Paola Figuretti Villamagna

 

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