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Umberto Veronesi, "Il mestiere di uomo"

Letture estive: "Lionel Asbo" di Martin Amis

Letture estive: Malvaldi, Piccolo

Stephen King, autobiografia di un mestiere

Sandra Petrignani, "Addio a Roma".

Letture estive (seguito) : Carofiglio, Trevi

Letture estive: E.L.James, Domenico Starnone

La libreria del buon romanzo

Roald Dahl: "Boy"

Elena Ferrante: "L'amica geniale"

Romain Gary: "La vita davanti a sé"

Letture estive (seguito) ma se è novembre! Pietro Citati

Letture estive (seguito) : Elif Shafak, Irfan Orga

 

Letture estive (seguito): Paola Mastrocola

Letture estive: Simonetta Agnello Hornby

William Shakespeare: "La Tempesta"

Palestina: Suad Amiry

I libri della mia vita. Un tema come a scuola

Alan Bennett, "La sovrana lettrice"

Letture estive: Giulio Mozzi, Paolo Giordano.

Margaret Atwood, Negoziando con le ombre

Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente

IVO ANDRIC, Il ponte sulla Drina

Umberto Veronesi, "Il mestiere di uomo"

E' uscito ieri un libro autobiografico di Umberto Veronesi, famoso oncologo italiano. Si intitola "Il mestiere di uomo" ed è edito da Einaudi.
Ne ho letto alcuni estratti sul quotidiano "La Repubblica".
L'autore racconta di essere nato in una famiglia non benestante, di essere rimasto presto orfano di padre, e di aver stabilito un rapporto forte col parroco del luogo, un religioso non convenzionale.
Racconta poi come, da puntuale chierichetto qual era nell'infanzia, si sia allontanato dalla religione.
Grande importanza ha avuto per lui l'esperienza della Seconda Guerra Mondiale, in cui furono mandati ad uccidersi reciprocamente ragazzi che si trovavano su sponde opposte, e di Auschwitz.
A questo punto nacque in lui la domanda: come può permettere Dio queste cose?
Veronesi racconta che in un primo momento voleva diventare psichiatra, per capire da quali menti malate e da quali meccanismi possano sorgere certe decisioni negli uomini.
Gli capitò invece di entrare in un reparto di oncologia, ricordiamoci che Veronesi è nato nel 1925, e che ai tempi in cui entrò in quel reparto, le cure per i tumori erano alquanto inefficaci.
E qui, vedendo bambini che morivano di tumore giorno per giorno invasi dalle metastasi, gli accade di fare le stesse riflessioni che aveva fatto per Auschwitz: ma se Dio esiste, come può permettere una cosa del genere? Fino ad arrivare a dire che il cancro è la prova che Dio non esiste.

Dall'articolo su Repubblica sono derivate molte polemiche, soprattutto sui giornali di destra, abituati ad ostentare un'osservanza che a me appare molto ipocrita, per i dettami della Chiesa cattolica.
Un quotidiano ha addirittura tentato di ridicolizzare le posizioni di Veronesi parlando di un nonnino novantenne...
Non sono mancate le dichiarazioni di Zichichi: "L'esistenza del mondo è la prova dell'esistenza di Dio", di aristotelica memoria. Se fosse così semplice...

Le mie riflessioni sono queste: dal punto di vista scientifico non si può affermare né che Dio ci sia né che non ci sia, quindi ognuno dovrebbe essere libero di seguire i suoi convincimenti, nel rispetto di quelli altrui.
Detto questo, sono molti coloro che si sono chiesti, compresi alcuni teologi: ma se Dio esiste come può permettere il male nel mondo? vedi il discorso su Auschwitz, i bambini sofferenti per il cancro, la stoltezza delle guerre.

La Chiesa risponde che Dio vuol metterci alla prova, ma questo mi sembrerebbe mettere in atto una specie di teatrino da parte della divinità.
Tant'è che alcuni teologi, proprio perché è umanamente impossibile accettare l'idea di un dio immensamente buono che accetta il male e sofferenze indicibili, parlano di un dio minore, non un creatore, ma solo una specie di governante del creato; mi sembra anche questa una posizione inconcludente.
Messa alle strette la Chiesa conclude che le intenzioni divine sono imperscrutabili e così evita di rispondere.

La mia personale posizione è vicina a quella di Feuerbach e di Freud: Dio, o meglio l'idea di Dio, è una proiezione umana.
Una proiezione dettata dalla paura di fronte al mondo, e dalla necessità di avere un Padre onnipotente a cui rivolgersi.
Anch'io mi sento così, debole di fronte a tutto ciò che non è in mio potere controllare, con la continua tentazione, che risale alla mia infanzia, di affidarmi e chiedere aiuto a chi tutto può.
Ma penso che questo essere, che ognuno plasma nella mente a suo piacimento, non ci sia.

 


Letture estive: "Lionel Asbo" di Martin Amis

Ho cominciato ad interessarmi a Martin Amis quando ho letto che, insieme a Salman Rushdie e a Ian McEwan, faceva parte della cerchia di amici di Christopher Hitchens. Un giornalista famoso per il ritratto irrituale e sconvolgente che in "La posizione della missionaria" fa di Madre Teresa di Calcutta.

Quella di Amis è una storia interessante: figlio di un prolifico (in senso letterario) scrittore inglese, non era molto attratto dagli studi, e frequentava spesso le sale da gioco.
Lui stesso ha raccontato che fu aiutato a trovare la sua strada dalla matrigna, scrittrice anche lei, e dall'incontro con Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen.

Amis è una persona che attira spesso su di sé polemiche, come quando dichiarò che sarebbe stato opportuno allestire ai margini delle strade apposite camere a gas per gli anziani, inducendoli a suicidarsi con un Martini e una medaglia.
Oppure per le critiche al comunismo contenute nel suo libro Koba il terribile. Un amico affermò che Amis ha la tendenza a trasformare sue paranoie personali in nozioni universali e astratte. Insomma, avete capito il tipo.

Il primo libro di Amis che ho provato a leggere è stato "La vedova incinta" che ho abbandonato dopo poche pagine.
Ci ho riprovato con "Lionel Asbo. Lo stato dell'Inghilterra". L'ho finito in poche ore, stupendomi di me stessa, perché di solito sono respinta da ambientazioni analoghe che mi intristiscono.
Protagonista del libro è Lionel, per gli amici Li, un muscoloso buzzurro amante della violenza, sempre in compagnia di 2 pittbul che cerca di mantenere molto arrabbiati.
Lionel sta scontando ai domiciliari una pena per rissa e atti vandalici. Abita in un quartiere degradato della periferia londinese dove le ragazzine sono già madri a 12 anni, nonne a 39, a 50 anni si è vecchi decrepiti, e dove spesso 3 generazioni vivono nella stessa casa sopravvivendo grazie al sussidio.
La voce narrante è quella di Des, amato nipote diciassettenne rimasto orfano, di cui Li si prende cura a suo modo: "esci sempre con un coltello in tasca, guardati un bel porno a casa, prenditi un pitbull".
I due si vogliono bene, ma tanto è violento e ignorantone Li, tanto Des è tranquillo e non ignorante.
Tranquillo ma...si metterà in una situazione difficile, rischiandola grossa con lo zio, se scoprirà che va a letto con la giovane nonna, madre di Li.
Un giorno Li vince alla lotteria nazionale 140 milioni di sterline, e all'improvviso lui e la fidanzata vengono catapultati nel mondo del gossip, diventando due personaggi ricchi e cafoni, come quelli che loro stessi avevano invidiato quando erano dei poveracci.

A me questo libro è piaciuto molto, mi sono domandata come ha fatto Amis a costruire dei delinquenti credibili, spargendo inoltre ironia a piene mani.
Il libro, come sempre accade, oltre a lodi ha ricevuto critiche: ad esempio quella di aver voluto infangare l'Inghilterra.
Amis ha risposto dicendo che il turista che arriva a Londra conosce il centro della città, e non può immaginare cosa si trovi al di là di esso.
"Volevo scrivere una metafora dell'Inghilterra d'oggi...da un lato una povertà endemica...dall'altro una ricchezza pacchiana".
Polemicamente Amis ha dato al protagonista il soprannome Asbo, che è l'acronimo di Anti-Social Behaviour Order, la legge voluta da Tony Blair a fine anni novanta per combattere i comportamenti antisociali.
Legge che Amis considera inutile: "non basta reprimere...quei comportamenti sono il risultato di vasti problemi sociali".

In conclusione, il libro è una satira della società, assimilata da alcuni critici a quelle di Swift, Dickens e Burgess.

 

 

Letture estive: Malvaldi, Piccolo

Certo sono un po' in ritardo...
Chissà perché in estate leggo molti gialli.
Gialli rilassanti intendo, quelli in cui c'è un personaggio-guida che ti è simpatico, per cui qualunque cosa accada nella storia non ti turba, perché sei in sua compagnia.

Fanno parte di questa categoria i gialli di Simenon, Montalban, Camilleri.
E così quest'anno mi sono divertita con la serie di Marco Malvaldi sui vecchietti-investigatori del Bar-Lume.

Sul blog di un'amica ho trovato un post sul libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti:
Avanzi di cucina

Di questo autore anni fa mi era stato regalato Momenti di trascurabile felicità.
Ricordo che lo abbandonai prima di terminarne la lettura.
Comunque il post mi aveva incuriosito e acquistai il libro.
Senza dubbio Piccolo scrive in maniera interessante, anche se ho notato che tende a riproporre ogni concetto 3 volte di seguito.
Il libro è autobiografico e descrive anche l'evoluzione delle sue convinzioni politiche; si è parlato a questo proposito di comunismo madeleine.

A suo tempo mi trovai in totale disaccordo con Enrico Berlinguer e la sua accettazione del compromesso storico con la DC.
(Compromesso storico che, come sappiamo, incontrò la netta contrarietà degli USA e, quasi sicuramente, determinò la morte di Aldo Moro).
Ho sempre pensato che la sinistra riuscisse ad ottenere molto di più dall'esterno delle stanze del potere.

E oggi mi trovo in disaccordo con la sostanziale critica di Piccolo a Berlinguer quando quest'ultimo, molto giustamente a mio parere, sollevò la questione morale, sperando che il Pci potesse differenziarsi in questo senso dagli altri partiti.

 

Stephen King, autobiografia di un mestiere

Stephen King, "On writing - Autobiografia di un mestiere".

Più che un manuale tecnico per aspiranti scrittori, è un'autobiografia del mestiere di scrivere.

Citazioni:
"L'onestà è la miglior politica" Miguel De Cervantes
"I bugiardi prosperano" Anonimo


dalla prima prefazione:
Da dove prende i suoi spunti? Non lo sa.
Tentativo di spiegare come ha cominciato il mestiere di scrittore, cosa ha imparato fino ad oggi, e come si lavora concretamente.

dalla seconda prefazione:
Evitare le parole inutili.

dalla terza prefazione:
Infanzia anomala, cresciuto da madre single che durante i suoi primi anni condusse un'esistenza nomade, affidando per qualche tempo lui e suo fratello ad una zia, per incapacità temporanea fisica ed emotiva di accudirli.
Abbandonati dal padre quando S.K. aveva due anni.

Il brano che mi ha più colpito:
la morte della madre, in un letto d'Ospedale.
Chiede di fumare una sigaretta, i figli a turno la aiutano a tenerla tra le dita.
Ogni tanto lei si ferma a guardare, soddisfatta, i suoi due figli che sono accanto a lei, e che (cosa che potrebbe sembrare strana in presenza di una moribonda) stanno fumando anche loro una sigaretta.
Tutti e tre sono uniti da questa non sana abitudine, che in quel momento rappresenta un intenso momento di comunità.

Sandra Petrignani, "Addio a Roma".

Addio a Roma, di Sandra Petrignani:
un'amica mi ha detto che è una sorta di gossip letterario.
Nel libro si parla di Roma, e dei protagonisti dei fermenti letterari e artistici dagli anni '50 ai '70.

Ho seguito con curiosità le vicende umane e sentimentali degli scrittori di cui si parlava sul settimanale che trovavo in casa quand'ero bambina.
Il libro è molto documentato, e ho apprezzato il fatto che l'autrice si esprima chiaramente su alcune vicende, senza usare parole ambigue.
Ma non di soli scrittori si parla, anche di pittori, seguendo il percorso di Palma Lucarelli, donna bella e affascinante (suo è il ritratto sulla copertina del libro), nonché esperta d'arte e direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Una donna tenace che riuscì a portare l'arte astratta a Roma.

Che effetto mi ha fatto questo libro? Mi è sembrato che l'autrice abbia costruito una specie di presepe: sicuramente attratta e affezionata ai luoghi di Roma, nel libro va riempiendoli degli artisti che nel tempo li hanno abitati, frequentati, occupati.

Terminata la lettura, mi è tornato in mente La scrittrice abita qui, sempre della Petrignani.
In questo libro l'autrice va a visitare le case di alcune famose scrittrici del '900. Conoscendo la loro casa, capiremo qualcosa di più delle donne che le abitavano, ci dice la Petrignani, che in realtà non si limita a raccontarci come erano fatte e come erano arredate le case, ma ci racconta anche le vicende sentimentali delle proprietarie.
Mi ha incuriosito seguire le vicende di Grazia Deledda, che conoscevo pochissimo.
Nata in Sardegna, aveva studiato solo fino alla quarta elementare, nonostante ciò riuscì a conquistare il premio Nobel per la Letteratura.
Stiamo parlando della seconda metà dell'800 e dobbiamo pensare a come venivano considerate le donne in un paesino della Sardegna, e di come la Deledda riuscì a scavalcare molti luoghi comuni. Anche se, ci viene raccontato, decise di sposarsi, sia pure non con un uomo che amasse veramente, per sentirsi protetta.

Ho trovato qualche affinità con la vita di Colette. La sua era considerata una vita dissoluta, perché si permetteva piaceri e deviazioni dalla morale corrente ma, in definitiva, non riuscì a conquistare una vita veramente libera, tale da farla sentire alla pari degli uomini con cui intrecciava rapporti amorosi.
Nel libro si parla poi di Marguerite Yourcenar e di altre grandi autrici.

Quello che mi è mancato, in questo come nel libro di cui ho parlato prima, è il ritrovare insieme, in uno stesso scritto, le vicende di vita dello scrittore/scrittrice, e il racconto della sua opera.
Leggere delle vicende di vita di una scrittrice: del suo cattivo carattere, del suo volersi imporre sugli altri, dei suoi difetti e dei suoi errori, senza mettere insieme anche una parte così importante della vita, come il lavoro e l'opera prodotta, mi pare che dia un'immagine riduttiva della persona, e non le renda giustizia.

 

 

Letture estive: Carofiglio, Trevi

Durante l'estate, per rilassarmi, leggo sempre qualche giallo. Quest'anno ho letto qualcuno dei libri di Carofiglio degli anni passati.

Mi sono piaciuti abbastanza. Chiaramente l'autore, essendo stato un magistrato, conosce bene l'ambiente. Inoltre mi è sembrato dotato di grande sensibilità.
E poi, avendo sentito parlare del Premio Strega, ho deciso di leggere anche il libro con cui Carofiglio vi aveva partecipato, e cioè Il silenzio dell'onda.
Mi è piaciuto meno dei precedenti, che secondo me risultavano arricchiti dalla cornice poliziesca.

E' di qualche giorno fa la polemica di Carofiglio, che ha citato in giudizio chiedendogli 50.000 euro di risarcimento, Ostuni, che è l'editor del suo concorrente Trevi allo Strega.
Ostuni aveva affermato sul suo profilo Facebook che Carofiglio era uno scribacchino mestierante.
Non mi dilungo più di tanto: si capisce che le critiche fanno male a chiunque, però il diritto di critica è sacro.
Chiedere un risarcimento pecuniario è un'intimidazione: se non ho i soldi è chiaro che non sarò più libero di scrivere quello che penso veramente.
Ostuni sarà stato pure tranchant nel suo modo di esprimersi, ma una reazione come quella di Carofiglio non me la aspettavo da un senatore PD, a cui non piacevano i bavagli che tentava di mettere Berlusconi.

Incuriosita dalle recensioni sui giornali, ho approfittato del mio compleanno per farmi regalare Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi.
Il libro è un lungo racconto di un'esperienza fatta una ventina di anni fa, al Fondo Pasolini, gestito da Laura Betti.
Il suo compito era quello di raccogliere e ordinare una serie di interviste concesse dallo scrittore ai giornali.

Trevi parla delle difficoltà incontrate nel rapporto quotidiano con la Betti, donna eccessiva in tutto, che continuamente lo aggrediva con commenti cattivi, chiamandolo zoccoletta (pare che avesse l'abitudine di rivolgersi con epiteti femminili a tutti i maschi con cui si trovava ad interagire, tranne che a Pasolini), innamorata dello scrittore scomparso, di cui voleva a tutti i costi preservare la memoria e ribadirne il valore.
Trevi racconta che, nonostante queste difficoltà, aveva deciso di restare perché la Betti era un concentrato di esperienze e conoscenze che automaticamente avrebbe riversato su di lui. L'esperienza al Fondo insomma si sarebbe risolta in un vero e proprio itinerario conoscitivo avente per oggetto Pasolini stesso, e in particolare Petrolio, il suo ultimo libro.

Ho sempre provato, per Pasolini, insieme interesse e non-accettazione. Dell'intellettuale, ho apprezzato la persuasione che ci sia stata una trasformazione in qualche modo guidata dell'Italia in un paese non più creativo, ma reso schiavo attraverso il consumismo.
L'ho sempre percepito come un uomo in lotta con se stesso. Ma non ho mai potuto accettare il suo comportamento nei riguardi dei ragazzi che induceva a prostituirsi.

Trevi fa un riassunto di questo lungo, strano e incompiuto libro, ordinato non per capitoli ma per appunti.
Petrolio è ritornato alla ribalta qualche tempo fa per la storia, vera o falsa non sappiamo, raccontata da Dell'Utri dell'appunto famoso che sarebbe stato sottratto dopo la morte dell'autore, durante un'incursione dei ladri in casa Pasolini.
In questo appunto si immagina che ci fossero rivelazioni pericolose sul caso Mattei: Lampi sull'Eni, era il nome dell'appunto.

Da qui parte qualche commento sull'omicidio di P.P.P. , e sulla diatriba che divide letterati e commentatori, se lo scrittore sia stato ucciso durante una delle sue notturne incursioni alla ricerca del piacere, o se sia stato un omicidio ordinato da qualche potere forte, arrivato a sospettare che l'intellettuale Pasolini avesse in mano qualche rivelazione pericolosa.

A favore della prima ipotesi stanno le abitudini sessuali di Pasolini, omosessuale che non accettava la sua omosessualità. Arbasino parla di pederastia, in quanto Pasolini era attratto dai ragazzi eterosessuali delle borgate.

A favore della seconda ipotesi stanno le numerose incongruenze nelle indagini, e l'aver passato sotto silenzio testimonianze e riscontri molto importanti, che andavano in senso diametralmente opposto a quello dell'omicidio commesso dal solo Pelosi, all'epoca anche minorenne, contro il fisicamente forte Pasolini.

Trevi sembra prendere posizione contro la teoria dell'agguato preordinato.
La morte di Pasolini, e Petrolio, sarebbero la testimonianza estrema della sua ricerca di conoscenza attraverso il sesso. Negli ultimi tempi sembra fosse passato da un atteggiamento di machismo, ad una ricerca di essere violentemente sottomesso.
Sembra identificasse il comportamento sessuale attivo con il male, il possesso, il capitalismo che rende schiavi.
Quindi il bene sarebbe stato l'atteggiamento passivo, forse femminile. Insomma una specie di viaggio iniziatico alla ricerca dell'altro da sé.

Una posizione del genere verrebbe però a negare la ricerca, da parte di Pasolini, sia nel libro che nella vita, di una verità storica e politica di quanto successo in Italia dagli anni '60 in poi, i complotti, le stragi e tutto il resto.
E contro questa posizione si scaglia la studiosa Carla Benedetti.

 

 

 

Letture estive: E.L.James, Domenico Starnone

Questi sono i libri che non mi sono piaciuti o che mi hanno fatto arrabbiare.

Comincio da un libro che ha avuto un successo stratosferico, secondo i giornali, e cioè Cinquanta sfumature di grigio, di E.L.James (in realtà si tratta del primo di un pacchetto di 3, al grigio seguiranno le sfumature rosse e poi le nere).
Per le prime 50/60 pagine si ha l'impressione di leggere un libro per signorine, così si chiamavano una volta i libri per ragazze in cui venivano descritte le a volte rocambolesche avventure per coronare un sogno d'amore.
Ma dopo queste prime pagine la musica cambia e si passa alle successive 540 pagine, e poi ad altri 2 libri sado-maso in salsa dolciastra.
La scrittura non è granché, è molto ripetitivo, il massimo che si possa dire è che potrebbe costituire un incentivo alla masturbazione, un sostituto delle riviste hard.
Trovo detestabile il fatto che per 3 tomi l'autrice tenti di persuadere le lettrici (o i lettori, ma si rivolge soprattutto alle donne), che un uomo con gravi problemi psichici, che non concepisce un rapporto sessuale senza procedure violente e di sopraffazione verso la partner, sia l' uomo ideale, da scegliere per la vita.
Sono moralista? Io non lo lancerei un messaggio del genere alle ragazze e alle donne in menopausa, queste sembra che siano state le 2 categorie che hanno comprato in maggior numero il libro.

Il secondo libro che mi ha fatto arrabbiare è stato Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, di Domenico Starnone.
Starnone è uno scrittore napoletano di sicura bravura, sia quando scriveva per Il Manifesto i suoi resoconti di insegnante in un liceo romano (resoconti poi diventati libri), che quando ha cambiato genere scrivendo libri di ampio respiro, cito per tutti Via Gemito.
Insomma questo scrittore mi piace, però l'impressione che ho ricevuto stavolta è che Starnone abbia indebitamente messo insieme in un unico volume 2 storie diverse come se fossero una sola, 2 storie cui come autore non era riuscito a dare una vita autonoma. Due storie che avevano entrambe una loro corposità, ma a cui non riusciva a dare una completezza.

Il terzo libretto (per le dimensioni) è Momenti di trascurabile felicità, di Francesco Piccolo.
Piccolo ha anche scritto la sceneggiatura dell'ultimo, non eccelso film di Nanni Moretti, Habemus papam.
Non c'è molto da dire, è proprio un elenco di cose che fanno star bene l'autore, che gli piace fare.
Va tutto bene, però non capisco come abbia potuto guadagnare una tiratura tanto elevata.

 

 


La libreria del buon romanzo

Ho appena finito di leggere La libreria del buon romanzo, di Laurence Cossé, autrice francese di successo.
E' la storia di un uomo e una donna, dalle storie personali molto diverse, che uniscono i loro sforzi per aprire la loro libreria ideale. E cioè una libreria in cui vengano venduti solo i romanzi-capolavoro, classici o nuovi che siano.

Quale amante della letteratura, dice la quarta di copertina, non ha mai sognato di aprire la sua libreria?
Arrivata ad un terzo della lettura, stavo rinunciando a proseguire: molto faticose le descrizioni alternate di alcuni personaggi.
Di salto in salto, arrivata circa a metà, sono stata presa dal racconto e l'ho finito in poche ore.
Il racconto si era trasformato in un giallo: chi stava tentando di boicottare, anche in maniera violenta la libreria che voleva rilanciare i libri belli, quelli che meritano di rimanere nel tempo e che regalano qualcosa di speciale al nostro spirito?
Solo che nel libro si pongono domande, si seguono piste, e alla fine si lascia tutto nell'indefinitezza, forse per mancanza di idee.

Purtroppo il libro che parla di una libreria fatta solo di libri belli, è proprio uno di quelli che i nostri librai avrebbero scartato, uno di quei libri che si fa leggere, ma solo per passare un po' di tempo.

 

 


Roald Dahl: "Boy".

Ho ripreso a leggere Roald Dahl, di cui avevo acquistato i libri per leggerli ai miei figli quando erano bambini.
E’ sempre stato uno scrittore anticonvenzionale, di cui apprezzo la tecnica. Perciò ho deciso di provare a rileggerlo.

Ho appena finito Boy, in cui racconta della sua infanzia e adolescenza fino ai 18 anni, quando rifiutò l’offerta della madre di proseguire gli studi in una Università, e decise di andare a lavorare per una grande azienda all’estero, in Africa.
E’ scritto in un linguaggio estremamente semplice, e pacato.
Faccio questa osservazione perché non so se io sarei stata capace di conservare lo stesso aplomb, di fronte al racconto di certe situazioni.

Dahl racconta che in quelle che noi chiameremmo scuole medie e licei, in Inghilterra vigeva l’abitudine di punire le infrazioni o le presunte infrazioni alle regole, da parte degli studenti, con punizioni corporali.
Le frustate venivano inferte con un bastone molto sottile, seguendo una procedura standard sadica e dolorosa. Una punizione volta a produrre terrore, sottomissione, ipocrisia. Non tutti gli insegnanti usavano questi metodi.
Al liceo gli studenti più grandi, i boazer, erano autorizzati ad usare i più piccoli per ogni genere di servizio a loro favore. Erano anche autorizzati ad usare le frustate, come piccoli kapò in un campo di concentramento.

Durante gli ultimi anni di permanenza a scuola Dahl godette di uno statuto speciale, in quanto campione sportivo in 3 specialità. Non venne però nominato boazer, in quanto si sarebbe rifiutato di picchiare i più piccoli.

Una sorpresa per Dahl fu quella di scoprire che il Direttore, un religioso privo di titoli, divenne più tardi arcivescovo di Canterbury e, in quella funzione, officiò il matrimonio di Elisabetta d’Inghilterra.
Questo direttore, che non brillava per capacità didattiche, portò Dahl a interrogarsi sulla verità della religione.

Come poteva quell’uomo così sadico nel frustare i ragazzi, parlare poi nelle sue omelie di bontà e compassione verso gli altri! Se questo era il rappresentante di Dio in terra, doveva esserci qualcosa di sbagliato nella fede.
In questo libro, come ho già accennato, lo stile di Dahl è molto semplice e piano. Molto diverso dallo stile scoppiettante e pieno di sorprese a cui ci ha abituati nei suoi racconti, sia quelli per bambini sia, e soprattutto, in quelli per gli adulti.

 

 

 

Elena Ferrante: "L'amica geniale"

Ho sentito parlare di Elena Ferrante da vari anni. La scrittrice si nasconde dietro l'anonimato, lasciando che a parlare per lei siano i suoi libri.
Questo ha chiaramente dato la spinta sui giornali ai tentativi di scoprire chi veramente essa sia.
E dal momento che i suoi libri hanno un'ambientazione napoletana, si è pensato,di volta in volta, che potesse essere identificata in Domenico Starnone, o in sua moglie Anita Raja, o in Fabrizia Ramondino.

La Ferrante ha esordito nel 1992 con L'amore molesto, da cui il regista Mario Martone ha tratto un film nel 1995, interpretato da Anna Bonaiuto.

Questo di cui voglio parlare è il suo ultimo libro e si intitola L'amica geniale. E' ambientato negli anni '50, in un rione di una difficile periferia napoletana.

Confesso che mentre leggevo sono stata tentata di abbandonare il libro, era molto forte su di me il riflesso emotivo di ciò che veniva raccontato. Anch'io sono originaria della Campania: i miei genitori non erano benestanti e si sono trasferiti a Roma per lavoro quando io avevo 2 anni, ma la Campania Napoli e i suoi dintorni hanno conservato un posto importante nella mia identità.

Il libro, dicevo, è ambientato in una periferia difficile di operai, artigiani, piccoli impiegati e camorristi con cui bisogna sempre fare i conti: di essi si ha paura, ma a volte a loro si ricorre per bisogno.

E' la storia di due bambine, e poi ragazze: Lila e Lenuccia, così si chiamano le due amiche tra di loro. E' la storia particolare e coinvolgente di un'amicizia, anche se la parola non contiene tutto quello che questo rapporto significa per loro.

E' la storia della loro difficile, pur se fortissima amicizia, e della loro evoluzione da bambine in ragazze. Sono due persone intelligenti sensibili e ricche di potenzialità intellettuali. Ognuna delle due invidia l'altra: si fa a chi è più brava e dotata, tanto che non si capisce chi sia l'amica geniale del titolo. E' anche la storia di un percorso, si potrebbe dire alla junghiana, di individuazione della propria identità e di affermazione delle proprie capacità.

Un percorso per entrambe le ragazze molto difficile. Immaginatevi una famiglia povera degli anni '50 in estrema periferia, posta di fronte alla richiesta dell'insegnante elementare di far continuare a studiare una ragazza.

A parte le difficoltà economiche, qui si trattava anche di decidere se impiegare soldi preziosi per la sopravvivenza familiare per una figlia femmina, il cui destino naturale sembrava essere quello del matrimonio: poi ci penserà il marito.

Alla fine Lenuccia continuerà a studiare, mentre Lila deciderà di sposarsi, in questo modo tagliando via da sé una parte essenziale della sua identità: vedi l'episodio in cui Lila va a portare alla maestra la partecipazione di nozze, e la maestra fingerà di non riconoscerla.

Quindi temi essenziali della Ferrante: Napoli e le donne. Ma in questo libro ci sono tantissime altre cose. Guardando le critiche ho trovato similarità e paragoni con la scrittura di Simone de Beauvoir La donna spezzata, con la Ortese, e con la Morante. Non so, approfondirò, questo è il primo libro della Ferrante che io abbia letto.

A proposito, l'autrice e i suoi editori e/o hanno annunciato che il libro avrà un seguito o due.

 

 


Romain Gary: "La vita davanti a sé"

 

In una libreria ho trovato un libretto di Neri Pozza: Romain Gary, La vita davanti a sé.
L'immagine di copertina è quella di un ragazzino, uno scugnizzo, direbbero a Napoli, berretto in testa e sguardo tra timido e sfrontato.

Il nome dell'autore mi ha immediatamente ricordato Jean Seberg, la sua compagna: un visetto bellissimo con i capelli biondi tagliati molto corti.
Jean Seberg era un'attrice americana che recitò in 2 film di Otto Preminger: Santa Giovanna e Bonjour tristesse, tratto dal romanzo di Francoise Sagan.

Trasferitasi in Francia divenne famosa recitando nel primo film di Godard: A' bout de souffle, con Jean-Paul Belmondo. Divenendo ben presto un'icona del cinema degli anni '60 e della nouvelle vague.
Ebbe una vita intensa di incontri e forse un po' sbandata. Un carattere delicato, su cui era facile infierire. Cadde in depressione, dopo il parto della sua bambina nata morta, per il fango, si direbbe oggi, gettatole addosso dalla CIA.
Seberg infatti lottava per i diritti dei neri ed era un'attivista del movimento delle Pantere Nere.
Fu trovata morta in un'automobile.

Romain Gary fu il secondo marito di Jean Seberg, e la sua vita non fu certo meno romanzesca. Nato in Lituania, sua madre era un'ebrea, un' attrice russa fuggita dalla rivoluzione, invece il suo misterioso padre fu probabilmente il più famoso attore del cinema muto.

Ebbe un rapporto profondissimo con sua madre, forse anche troppo intenso . Ad ogni modo sua madre lo portò con sé in Francia e, lavorando eroicamente, lo spinse fortemente a realizzarsi.
E infatti Gary intraprese con successo la carriera diplomatica, tanto da diventare Console di Francia. Ma, dopo alcuni anni, decise di dare una svolta alla sua vita e si mise a scrivere. Ebbe molto successo, tanto che gli fu attribuito il Premio Goncourt.

Ma anche come scrittore Gary non seguì canoni comuni. Quando veniva considerato ormai finito, uscì La vita davanti a sé, che ebbe un successo stratosferico.
Ma sotto un altro nome, attribuito ad un cugino che recitava la parte dello scrittore Emile Ajar.
Forse in questo modo gli piacque prendere in giro tutti quelli che lo consideravano finito. Anche questo libro ottenne il premio Goncourt.

Anche lui, poco dopo la morte della Seberg, si suicidò.

Che dire del libro? Si legge velocissimamente, è interessante ed è la storia di una crescita interiore.
Un ragazzino della probabile età di 10 anni, ma sembra un po' più grande, non sa niente della sua storia e dei suoi genitori, e vive con madame Rosa, un'ex prostituta che ospita a pagamento a casa sua dei ragazzini tutti figli di prostitute, che glieli affidano per evitare che i servizi sociali glieli tolgano, dato il mestiere che fanno.
Momo è arabo, mentre madame Rosa è un'ebrea scampata ad Auschwitz. Vivono al sesto piano di un condominio di Belleville, quartiere periferico di Parigi e multietnico (ricordate Pennac?)

Abitare al sesto piano ha la sua importanza nel romanzo, perché madame Rosa è molto grassa e parecchio malata. Difficile anche portare su la spesa.
E' affascinante il racconto delle esperienze quotidiane di Momo. Non va a scuola, ma impara tante cose da un vecchio arabo venditore ambulante di tappeti.
Nel personaggio di Momo, probabilmente Gary trasferisce molti elementi autobiografici: l'intenso rapporto con la madre/madame Rosa; come pure il mistero del padre sconosciuto.

Una cosa interessante del romanzo è la lingua in cui si esprime Momo, che doveva essere coerente con quella di un ragazzino che vive a Belleville, non va a scuoila, non conosce i genitori, abita da un'ex puttana, pensa di intraprendere la carriera di prossineta (sì lui dice così), ma sa imparare dalle persone che incontra, senza giudicare.
In qualche momento, nonostante le difficoltà nelle quali Momo è immerso, immagini un senso di libertà nel vivere una vita al di là dei normali canoni di sicurezza e di quello che è considerato bene dal pensiero comune.

>Alla fine Momo scoprirà quali sono le sue origini, e riuscirà a salvare dall'Ospedale madame Rosa, che non vuole andarci per essere curata oltre i limiti di una vita dotata di senso.
Ci riuscirà nascondendosi con lei in un sottoscala, e non vorrà riconoscere per giorni che Rosa è morta. Verrà salvato da una famiglia normale ma non convenzionale, che lo prenderà con sé.

Tutto questo in uno snello libretto di 200 paginette al costo di 10 euro e 50.
Buona lettura se volete.
Dimenticavo: dal libro venne tratto nel 1977 un film con Simone Signoret nella parte di madame Rosa. Spero di trovarlo.

 

 

Letture estive: ma se è novembre! Pietro Citati

Tra i libri letti quest'estate, i due che mi hanno più colpita, interessata e impegnata anche emotivamente sono stati:

PIETRO CITATI, La malattia dell'infinito. La letteratura del Novecento. Oscar Mondadori, 2009 e

MICHEL ONFRAY, Crepuscolo di un idolo. Ponte alle Grazie, 2011.

Il libro di Citati l'ho trovato casualmente durante un giro per librerie.
Ma chi è Citati?

Citati nasce casualmente a Firenze nel 1930, ma dice di sentirsi torinese.
Laureato in Lettere, ha per breve tempo insegnato per poi cominciare a scrivere su riviste di letteratura.
Abita ormai da moltissimo tempo a Roma, una città che ama, in cui ha incontrato e frequentato molti amici scrittori: Gadda, Calvino, Manganelli, ma anche registi come Fellini.

Non credo che Citati piaccia a tutti i suoi colleghi, non si nasconde dietro perifrasi e quando non apprezza qualcuno non glielo manda a dire.
Come quando afferma che è meglio non leggere, piuttosto che leggere Dan Brown, Susanna Tamaro, o Oriana Fallaci, oppure quando afferma che da vari anni il Premio Nobel per la Letteratura viene dato a persone del tutto immeritevoli, come il francese Le Clézio.

Citati ama da un lato i miti, dall'altro i romanzi e i racconti di quegli autori che possiamo considerare dei classici, perché coi loro scritti ricreano un mondo intero nella sua complessità.
Considera l'Odissea di Omero l'opera che ha dato origine al romanzo europeo.
Secondo lui oggi non ci sono più autori-classici, ma solo bravi scrittori, come Orhan Pamuk di cui nella Malattia dell'infinito analizza Il suo nome è rosso.
I suoi scrittori preferiti sono Goethe, Leopardi, Kafka, Gadda, Proust, Pessoa, Musil, Borges, Nabokov... cui ha dedicato libri o articoli su Repubblica.

Per Citati la critica è l'arte di interpretare un testo.
La sua tecnica di lavoro consiste nel leggere tutto quello che riguarda l'autore che vuol studiare, leggere talmente tanto da immedesimarsi con lui.
Usa la biografia dell'autore che sta studiando per illuminarne l'opera.
Dice di rifarsi a Sainte-Beuve, che proprio a causa del suo metodo fu duramente attaccato dal Proust.

Per Citati l'opera d'arte contiene in sé un aspetto metafisico che viene percepito diversamente nelle varie epoche storiche, ad esempio la Divina Commedia era considerata un poema barbaro nel '700.
Ma l'opera d'arte ha anche la capacità di sembrare ogni volta un libro diverso a chi la rilegga nelle varie fasi della sua vita.

Gli autori affrontati nel libro sono tutti accomunati da quella che Citati chiama la malattia dell'infinito, cioè la ricerca della zona d'ombra che ognuno porta in sé.

La lettura di questo libro, che è un libro di critica letteraria, mi ha affascinato come se stessi leggendo un romanzo. Il critico Citati è un vero scrittore, anche se afferma di non essere capace di creare un mondo suo, ma solo di ripercorrere e tentare di comprendere quello di un altro.
Mi ha letteralmente entusiasmata nel suo racconto della ricerca interiore ed emotiva che ha portato i vari scrittori a comporre la loro opera.


 

Letture estive: Elif Shafak, Irfan Orga

Accettando il suggerimento del gruppo di lettura a cui partecipo da anni, ho voluto gettare uno sguardo sulla letteratura turca.
Così ho letto La bastarda di Istanbul, e Una famiglia turca.
Comune ai due libri è l'ambientazione ad Istanbul.
Il primo dei due è uscito in Italia nel 2007, ed è stato scritto da Elif Shafak, una giovane scrittrice di origini turche, che vive e lavora tra gli Stati Uniti e la Turchia.
L'autrice ha avuto nella patria d'origine notevoli problemi giudiziari, in quanto nel libro si parla con esecrazione del massacro degli Armeni che, fino alla Prima Guerra Mondiale, avevano convissuto pacificamente con i Turchi.
Il plot è semplice e complicato nello stesso tempo, ho avuto difficoltà all'inzio perché confondevo i nomi, ma dopo un po' mi sono appassionata alla storia e alle diversità culturali.
Vi si parla di due ragazze: una, la bastarda del titolo, è turca e vive nell'ambito di una famiglia composta di sole donne, di generazioni differenti.
Vengono raccontate le difficoltà di tutti i giorni e i continui tentativi delle più anziane di controllare l'aderenza delle più giovani ai comportamenti considerati adeguati alla morale locale.
Nonostante questo, una delle sorelle, quella che tenta almeno esteriormente di ribellarsi alle convenzioni, rimane incinta e, dopo aver pensato di abortire, decide di tenere la bambina Asya, per l'appunto la protagonista del titolo.
Un altro particolare, che risulterà irritante per molte donne, è l'adorazione che le donne della famiglia, soprattutto le più anziane, mostrano per la figura maschile. Si ammazzano di lavoro tutto il giorno, prendendosi cura di innumerevoli problemi, e poi sono così indulgenti verso i maschi della famiglia anche quando non lo meritano affatto.

L'altra protagonista del libro vive in America ed è figlia di un'americana originariamente sposata con un armeno, che in seconde nozze ha sposato un turco.

Questa seconda ragazza decide di recarsi di nascosto dalla madre ad Istanbul, per ritrovare i luoghi di sua nonna e ricostruire dentro di sé una realtà che non conosce. Qui sarà ospite della famiglia del suo patrigno.
Le due ragazze a poco a poco legheranno, Asya la introdurrà anche presso i suoi amici; alla fine si scoprirà che il suo patrigno, che aveva lasciato all'improvviso Istanbul e le sue donne tanti anni primi, è proprio colui che ha abusato di sua sorella, mettendola incinta di Asya.

Il secondo dei due libri è Una famiglia turca di Irfan Orga.
Originariamente pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti nei primi anni cinquanta! Finalmente è stato pubblicato anche in Europa: è un libro autobiografico che ripercorre la vita dell'autore dal 1913 al 1940. E' quindi ambientato al tempo della caduta dell'Impero Ottomano, della Grande Guerra, di Kemal Ataturk ecc., e narra la caduta nella povertà della sua famiglia alto-borghese.

Quando si erano sposati i suoi genitori avevano lui 20 e lei 15 anni. Prestissimo lui verrà richiamato alle armi e morirà.
Questa vedova poco più che ventenne, abituata al lusso, rimasta sola, con tre bambini cui provvedere, si troverà nella necessità di pensare alla vera e propria sopravvivenza.
Riflessione: assurdo far sposare una ragazzina a 15 anni e farle assumere responsabilità non adatte alla sua età, comunque anche da noi negli anni '50 era così, per lo meno nei paesi.
Altra co-protagonista è la suocera, abbastanza ingestibile, che spesso aggrava i problemi della giovane madre.

Dopo una serie lunghissima di vicissitudini la famiglia, con molte ferite soprattutto psicologiche (la mamma finirà in un ospedale psichiatrico e non vorrà più rivedere il figlio) uscirà dalla povertà.
Il protagonista riuscirà a diventare ufficiale dell'Aeronautica, ma anche per lui l'esito finale non sarà felice: allontanato dalla Turchia in quanto traditore, per aver sposato una donna straniera. Con l'aggravante che questa donna forse non aveva la sua stessa visione della vita.

In conclusione un libro scritto bene, molto interessante, e in alcune parti molto triste. Fa riflettere non solo sulle difficoltà, a volte estreme, che la vita ti pone, ma anche sulla nostra incapacità di tenerci lontani dai soliti errori e dai comportamenti che ci possono portare ad esiti nefasti.

Prossime letture turche? Orhan Pamuk naturalmente, i cui libri non ho ancora assaggiato.

 

 

Letture estive: Paola Mastrocola

Di Paola Mastrocola avevo già letto Una barca nel bosco e La scuola raccontata al mio cane.
La Mastrocola è un'insegnante, e nei suoi libri parla spesso della scuola in rovina dei nostri tempi.

Il suo ultimo libro Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, ha suscitato molte reazioni. A me sembra che il suo atteggiamento venga spesso frainteso.
Questa autrice mi ricorda alcune insegnanti della mia giovinezza: rigide ma appassionate, desiderose di salvare gli studenti, di far capire che non c'è salvezza senza cultura, e che senza cultura saremmo tutti preda dei molti che tentano ogni giorno di condizionarci.

Detto questo, sono rimasta molto incuriosita quando La Repubblica ha pubblicato un suo svelto libretto dal titolo Facebook in the rain.
E' un racconto lungo diviso in brevi capitoletti, che si legge in un soffio. E' la storia di una vedova di mezza età che passa tutto il suo tempo al cimitero, in compagnia del marito morto.
Viene salvata da Facebook, ma rischia poi la morte a causa di Facebook. Non voglio dire di più.
Mi ha fatto l'effetto di una favola di Esopo, un piccolo apologo morale sul pericolo di farci condizionare dagli strumenti di comunicazione, invece di usarli saggiamente e non in maniera esclusiva.

 


Letture estive: Simonetta Agnello Hornby

Ho letto, in quest'estate non ancora terminata, Un filo d'olio di Simonetta Agnello Hornby, edito da Sellerio.
L'autrice vive da molto tempo in Inghilterra, dove svolge la professione di avvocato.
Della Agnello Hornby posseggo già La mennulara, il suo primo libro, che mi propongo di leggere quanto prima.

Un filo d'olio è una raccolta di ricordi riguardanti le estati passate nella casa di famiglia e negli oliveti in Sicilia. Completano il libro una serie di ricette familiari, raccolte dalla sorella dell'autrice.

Ho letto questo libro un po' per volta, mentre ne leggevo altri; possiede una certa piacevolezza e ha stuzzicato in me ricordi della mia infanzia, eppure...
In realtà non amo questo tipo di libri, costituiti da pezzi sia pur piacevoli, messi insieme.
E' come se fossero costituiti da ritagli, che le autrici non sono riuscite ad utilizzare in altre opere, e che non volevano buttar via.

Ho parlato di autrici perché mi riferisco ad un altro libro di un'autrice pregevole, letto qualche tempo fa. Si tratta di Rosetta Loi, La prima mano, edito da Rizzoli.
Anche qui foto e ricordi in abbondanza, senza una storia unica con un inizio, un centro ed una fine.

 

 

William Shakespeare: "La Tempesta"

Ho letto per la prima volta La Tempesta di William Shakespeare.
Pare che la maggior parte dei critici legga il testo come una metafora del teatro. Si è anche detto che Shakespeare abbia rappresentato se stesso nel personaggio di Prospero.
Con la sua rinuncia alla magia, S. avrebbe raccontato il suo personale abbandono delle scene, di questa particolare magia in cui consiste il teatro.Perché l'invenzione di una storia e la sua rappresentazione non sarebbero altro che la creazione di una storia e di un mondo che non c'è.

La Tempesta è scritta in versi, le varie scene venivano originariamente intervallate da musiche e canti.

Ricordo che ad Eduardo fu chiesto di scegliere un'opera di S. per tradurla in napoletano.
Ed Eduardo scelse La Tempesta e la tradusse nel napoletano del '600, quello di Giambattista Basile.
Perchè in napoletano del '600? Perché, spiegò Eduardo, questo dialetto antico era più piano e dolce, privo delle parole tronche del dialetto napoletano moderno.
Ma perché Eduardo scelse proprio La Tempesta? Forse perché anche Eduardo di lì a poco avrebbe lasciato la vita e le scene. Ma c'era un ulteriore motivo: il messaggio morale.
Prospero ha subito tremende ingiustizie e dolori dai suoi congiunti. Decide di superare la sua rabbia, prima facendo comprendere agli infedeli congiunti il malfatto, e poi perdonandoli.

Interessante inoltre la triade costituita da Ariel il personaggio che si libra nell'aria verso l'alto ed è capace di eseguire le magie, Calibano personaggio di terra bestiale incapace di imparare per migliorarsi, e infine al centro Prospero, un uomo che infine rinuncia alla magia e torna a fidarsi e ad affidarsi ai suoi simili, contando nella com-passione tra esseri umani.

Si può vedere anche il tema del colonialismo, nel personaggio e nel nome di Calibano.

Ci sarebbero riferimenti anche alla commedia dell'arte, che S. conosceva bene, forse presente nei personaggi di Stefano e Trinculo.

Si è detto che La Tempesta riecheggia in qualche modo anche l'Odissea, con quest'isola al centro della rappresentazione teatrale.

Secondo alcuni critici la problematica della Provvidenza sarebbe presente se non direttamente, almeno come ideologia ispiratrice. Vedi il personaggio di Prospero, che pur con vari aiutanti, mette in scena/crea l'intera rappresentazione, come un dio.

 

 

Palestina: Suad Amiry

Suad Amiry è nata a Damasco da genitori esuli dalla Palestina, in seguito alla costituzione dello stato di Israele nel 1948.
Ha vissuto in Giordania, Siria, Libano ed Egitto. Ha studiato all'estero, ed ha scelto di tornare a vivere in Palestina, a Ramallah.

Insegna architettura all'Università, e ha fondato un centro per lo studio dell'architettura storica palestinese. Ha partecipato nel 1991-93 ai colloqui di pace in America, in seno alla delegazione palestinese. Dopo aver sposato suo marito, ha vissuto per 7 anni come clandestina nel suo paese, in attesa della carta d'identità.

E' una donna alta e, penso, molto simpatica, tra i 50 e i 60 anni.

Tempo fa mi sono trovata tra le mani un suo libretto, edito da Feltrinelli, dal titolo Sharon e mia suocera. Nel testo narra di due sciagure: fuori casa l'occupazione israeliana, dentro casa la convivenza forzata, a causa del coprifuoco, con la suocera ultranovantenne. Suocera che si ostina a mantenere abitudini da tempo di pace.

Perché ho detto che Amiry dev'essere un tipo simpatico?
Perché ci racconta con garbo ed ironia l'assurdità della vita nei territori occupati: check-point ogni pochi chilometri, permessi da richiedere per attraversare zone che si debbono attraversare ogni giorno per andare al lavoro, code da fare per ottenere i permessi, passaporti concessi più facilmente ai cani che alle persone, sospensione del coprifuoco che dura pochissimo senza darti il tempo di fare la spesa, scuole chiuse, case distrutte, serrature sfondate, furti nelle case da parte dei soldati israeliani, devastazione degli uliveti che danno il pane agli agricoltori, costruzione del muro che separa le case dai campi, ecc.ecc.ecc.

E tenete presente che questa è la vita raccontata da una persona della buona borghesia, dotata di cultura e mezzi economici, che le permettono di sopportare questi avvenimenti con spirito e di rifornire la dispensa in previsione dell'assedio. Non oso pensare alla maggioranza della popolazione, che vive nella povertà già normalmente.

Amiry è una donna spiritosa che, per non impazzire, fa saltare i nervi al soldato israeliano che interroga lei e il marito, fissandogli gli occhi addosso muta, o che al solito soldato che le chiede spiegazioni sul perché di un viaggio in Inghilterra risponde che c'è andata per ballare, o al gendarme che la ferma al check point e la trova senza passaporto risponde che però ce l'ha il cane e lei gli fa da autista. Voi ci angariate? Non possiamo far molto, ma almeno ci sfoghiamo prendendovi per i fondelli.

Sharon e mia suocera, seguito da Se questa è vita, è quindi una specie di diario dell'occupazione, costituito originariamente dalle mail che lei inviava agli amici per sfogarsi.

Il nostro architetto deve aver preso gusto a scrivere, anzi a fare il cantastorie come dice lei, e ha proseguito con un terzo libro Niente sesso in città.
Naturalmente non è vero che i Palestinesi non facciano sesso, è un titolo provocatorio che vuol smentire alcuni stereotipi, soprattutto sulle donne orientali.

E' il racconto degli incontri mensili in un ristorante bene di Ramallah di un gruppo di donne sulla cinquantina, e di alcune tra i trenta e i quaranta. Parlano di vita privata, di amore, di chirurgia estetica e di politica. Soprattutto le sue coetanee, che hanno impiegato la giovinezza nella lotta insieme all'OLP in favore della costruzione di uno stato palestinese, si sentono spiazzate dalla vittoria di Hamas, nelle ultime elezioni. Hanno lottato per la nascita di una Palestina laica e democratica, ed hanno il timore che la popolazione, ormai arrabbiata e scoraggiata, si butti in braccio ai terroristi fondamentalisti.

A questo punto Amiry presenta una tesi amaramente provocatoria, perché ha vinto Hamas? Perché anche la Palestina, come il suo gruppo di amiche, sta attraversando la crisi della menopausa.

 

 

I libri della mia vita. Un tema come a scuola

I libri della mia vita sarà a giorni l'argomento del gruppo di lettura a cui partecipo.
Questo tema ha richiamato alla mia mente un sacco di ricordi.
A casa mia, quand' ero piccola, non c'erano molti libri, all'infuori del sillabario.
Per cui mi gettavo avidamente perfino sulla carta di giornale in cui era avvolta la spesa che mia madre riportava dal mercato.
Però avevo uno zio a cui ero affezionatissima. Lavorava al nord e un paio di volte all'anno passava a trovarci. Non dimenticava mai di portare un regalo per me, e spesso era un libro.
Erano libri per ragazzi dalle belle copertine, su cui mi soffermavo a sognare, ma ricordo di non averli mai letti completamente.
Forse lo sentivo come un compito. Ero molto lusingata dall'apprezzamento nei miei confronti perché ero brava a scuola, ma forse volevo essere amata semplicemente perchè ero una nipotina.
Alla scuola media c'era la biblioteca d'istituto ma non sempre l'insegnante lasciava noi scolare libere di scegliere. A volte mi capitava di dover leggere un libro per cui non provavo alcun interesse, e anzi di doverlo anche riassumere e scriverci su un commento.
A scuola molte cose vanno approfondite con gli strumenti concettuali che solo l'insegnante può fornire, ma poi, come dice Pennac, ci vuole uno spazio di tempo dedicato alla lettura libera, senza altri doveri che non siano la libera esposizione e discussione.
Un'ultima notazione riferita al periodo delle scuole elementari e medie: non ho mai potuto sopportare Pinocchio, con quel povero burattino costretto a trasformarsi in un ragazzino saggio, l'ho sempre considerato un libro molto moralistico.
La mia famiglia era credente, pur non essendo bigotta, ma non reagì bene ai miei primi dubbi sull'esistenza della divinità.
Al ginnasio conobbi un' insegnante di religione molto disponibile a cui potei esporre i miei rovelli. Le chiesi qualche testo su cui approfondire l'argomento, e lei me ne prestò uno, probabilmente di teologia.
Non ci capii una mazza. Nel frattempo i miei dubbi aumentarono, ma quel primo libro mi spinse verso la filosofia.
Comprai e lessi anche la Bibbia, rimanendo molto colpita dalle narrazioni contenute nell'Antico Testamento.

Un altro regalo del ginnasio fu l'innamoramento per la lettura ad alta voce, si potrebbe anche dire per la recitazione. Anche qui la colpevole fu un'insegnante che, a turno, ci faceva leggere in classe I Promessi Sposi. Al liceo ho goduto della liberalità di alcune compagne di scuola, che mi hanno permesso di attingere alle loro biblioteche casalinghe. E così ho letto con godimento Guerra e pace di Tolstoi (saltando le descrizioni delle battaglie, e subendo il fascino dei dialoghi in francese), e Giuseppe Berto, che mi fece incontrare col concetto di psicoanalisi.
A quei tempi c'erano i famosi sceneggiati televisivi, fatti benissimo anche se oggi sarebbero probabilmente considerati di una lentezza esasperante; ci hanno fatto conoscere grandissimi autori: Dickens e tanti altri. Ma in tele si trasmetteva anche teatro: Shakespeare e le tragedie greche, ne ricavavo noia e fascinazione insieme.
Uscirono anche godibilissimi film, che andavo a vedere con le mie amiche, ricordo in particolare Tom Jones, basato sul romanzo di Henry Fielding.

Durante gli studi liceali naturalmente, ho conosciuto Dante.
Se mi chiedessero di esprimere con una sola frase il mio amore per la letteratura, riporterei il verso del canto di Ulisse: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.

Per caso un giorno, vidi esposto in una vetrina un libro di Bertrand Russell. Non ricordo perché mi colpì, ma cominciai a leggere questo filosofo, che fece parlare di sé anche per l'opposizione agli USA durante la guerra in Vietnam.
Credo che la sua Storia della filosofia occidentale sia un'opera geniale, per l'attenzione grandissima posta nel far emergere l'ambiente storico e culturale da cui ogni filosofo proviene. Russell era anche esperto di matematica e questo, per la comprensione di alcuni filosofi, è di importanza fondamentale.

Durante l'adolescenza ho letto un sacco di letteratura rosa; ma allora non fa male? Forse il segreto, come al solito, sta nel leggere tante cose diverse.

All'Università mi innamorai di Freud.
Oggi ci si interroga su cosa sia rimasto di valido nella psicoanalisi.
Oggi rischiamo di diventare delle macchine: tempo fa ho sentito propagandare una pillola capace di abolire i ricordi dolorosi. Il messaggio sembra essere: se basta una pillola, perché cercare faticosamente di affrontare i problemi con una maturazione mentale ed emotiva?
Ma a parte questo, se leggete i casi clinici, vi troverete di fronte a narrazioni letterarie di grande interesse e fascino.

Fra gli scrittori che ho incontrato in tempi più o meno recenti, ci sono Primo Levi, Kundera, Carver, Yehoshua.
Considero quest'ultimo il più grande scrittore esistente, ogni volta che esce un suo libro provo un grande piacere all'idea di trascorrere un bel po' di tempo insieme a questa persona e al mondo in cui mi fa entrare. Yehoshua mi interessa anche perché fa una riflessione sull'etica nella letteratura.
Quanto a Carver è un mago nel creare un mondo e una storia nello spazio di un racconto, senza parole superflue ma suscitando, come ha detto un suo critico, sensazioni di attesa.
Ho impiegato molti anni per decidermi a leggere Primo Levi. Non volevo soffrire. Ho incontrato un grande che non fa retorica, e che ti coinvolge in una domanda terribile: perché chi è sopravvissuto all'orrore di un lager, si sente in colpa rispetto a chi non ce l'ha fatta?

Ho parlato solo di alcuni, ho tralasciato quelli che mi vergogno di non aver letto ancora, voglio terminare con uno che godo a non aver letto ancora: Robert Musil, col suo lungo e incompiuto Uomo senza qualità.

E in ultimo voglio ricordare la persona che mi ha fatto innamorare della lettura: la mia nonna materna, che mi ha raccontato le favole campane e tante storie.
Quando ha finito le sue storie, sono andata a cercarle sui libri. E' un piacere così grande mangiare, oh pardon, leggere un libro!

 

 

Alan Bennett, "La sovrana lettrice"

Un'amica del mio gruppo di lettura ci ha suggerito questo libro: ALAN BENNETT, La sovrana lettrice, pubblicato da Adelphi.
L'unico difetto è che costa 13,50 euro pur essendo un libro di sole 90 pagine, in pratica un racconto lungo. Comunque, facendo un giro da Rinascita l'ho visto, mi ha incuriosita, e in un'oretta l'avevo già letto.
Intendiamoci non è un capolavoro, ma è molto godibile, ironicamente comico.
Parla della regina Elisabetta, una donna diversa dalle altre perché chiusa in un ruolo che predetermina la sua vita. Tutto è predisposto, anche l'apparente spontaneità negli incontri con i sudditi è costruita.
Un giorno, per una casualità, la regina entra in contatto con un libro e da lì prende origine un percorso che trasformerà la sua vita. Si appassiona sempre di più alla lettura, parte dalla letteratura rosa per arrivare agli autori più complessi.
Ma non è solo un percorso culturale: così come leggendo, la regina impara ad entrare nella vita dei personaggi, così nella vita reale la sovrana comincia ad osservare veramente gli altri, a provare curiosità per loro e forse anche compassione, in senso buddista (noi tradurremmo questa parola con: siamo nella stessa barca). E inoltre la regina scopre che la letteratura è democratica, i libri se ne infischiano di chi li legge, non fanno differenze tra i lettori.

A fronte del percorso intrapreso dalla tardodiscente regina, il libro descrive i malumori di coloro che la circondano e hanno il compito di farle rispettare il copione prestabilito, senza variazioni.
La regina si dedica alla lettura? Dev'essere un primo segno dell'Alzheimer. Inoltre non è più puntuale come un tempo, e comincia a non tollerare più di stringere certe mani come quelle dei dittatori, legittimando in questo modo il loro potere.
Come finisce il libro? La regina, dopo aver letto tanto, passa all'azione: scriverà la sua autobiografia, e per non subire condizionamenti decide di...
Questo libro mi ha divertita, ma soprattutto mi ha entusiasmata l'idea della lettura/letteratura che trasforma le persone che a loro volta indurranno cambiamenti intorno a sé.
Nei tempi abbastanza brutti in cui mi pare di vivere, soprattutto se penso cosa potrebbe attenderci, credo che solo l'uscita dall'ignoranza, l'amore per la bellezza, per la cultura ci possa salvare.

 

 


Letture estive: Giulio Mozzi, Paolo Giordano.

GIULIO MOZZI, Fantasmi e fughe, Einaudi Stile libero. euro 7,50

L'autore di questo libro è Giulio Mozzi, il creatore di Vibrisse. Racconta di un giovane scrittore di nome Giulio Mozzi, che ha organizzato la sua vita in modo da star sempre in viaggio o, il che è lo stesso, lontano da casa, per corsi di scrittura creativa e altri lavori editoriali.
Sembra proprio un'autobiografia, lui dice che non lo è.
Mi sono stupita nel leggere che, figlio di genitori biologi, ha preso la maturità classica ma non si è laureato. E tuttavia è diventato un bravo scrittore, si sente che la sua cultura non è superficiale, ha saputo studiare da solo.
Ho trovato affascinante il racconto di un uomo con una sensibilità che a me è apparsa nevrotica, in qualche modo sempre in fuga per sfuggire-affrontare i suoi demoni-sé stesso. Consigli per allenarsi a scrivere: BRUGNOLO-MOZZI, Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli.
vedi anche: GIULIO MOZZI,Scriptorium, Un corso di scrittura in 100 chiacchierate. Si trova in nuke.ilsottoscritto.

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PAOLO GIORDANO, La solitudine dei numeri primi, Mondadori, euro 18.

Ho letto il libro di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi. Anticipo che non riferirò nulla della trama, per non togliere qualcosa a chi lo leggerà.
Tanto di cappello all'autore, che a 26 anni è laureato in Fisica teorica, è dottore di ricerca presso una Università, e ha già all'attivo un romanzo che è diventato in breve tempo un best-seller.
Le prime pagine ti afferrano letteralmente. I personaggi principali sono creature particolari, dalla sensibilità delicata. Sensibilità espressa sulla pagina come se l'autore la conoscesse dall'interno.
Ma il romanzo è troppo lungo. La tensione emotiva, così alta all'inizio, non può essere tenuta per così tante pagine. Secondo me la dimensione giusta per quest'opera sarebbe stata quella del racconto lungo.
Riguardo alla conclusione poi, le mie perplessità sono ancora maggiori. Seppur indefinito, il finale mi sembra eccessivamente ottimistico, in riferimento a personaggi così nevroticamente delicati e problematici.

P S Mi accorgo solo ora che parlato di due libri con personaggi dalla sensibilità delicata. Vorrà dire qualcosa?
A presto

 

 

Margaret Atwood, Negoziando con le ombre, Ponte alle Grazie 2002

Margaret Atwood è una scrittrice canadese (come Alice Munro cui fa riferimento nel primo capitolo).
Ha cominciato a diciannove anni, scrivendo poesie. Da allora ha scritto venticinque libri,soprattutto romanzi e racconti, ma anche poesie e saggi.
Arrivata a questo punto, deve aver sentito il bisogno di fare un bilancio: questo libro è la trascrizione di sei lezioni sulla scrittura tenute nell'anno 2000 presso l'Università di Cambridge.
Lezioni non su come si scrive, ma sullo scrittore, sulle sue motivazioni, e su come viene percepito e giudicato dalla società.
In questa luce la Atwood affronta il tema del doppio. "Il semplice atto di scrivere divide l'Io in due", uno è l'Autore, e l'altro è colui che presta il suo corpo e il suo vissuto a chi scrive. Lo scrittore scrive su se stesso e nel far così perde pezzi del suo Io travasandoli nella sua opera.
Può accadere che lo scrittore, diventando famoso, venga oscurato dall'immagine di sé che lui stesso ha creato: "Byron un giorno si risvegliò famoso, e fu identificato con la figura byroniana della sua poesia...non sarebbe mai potuto vivere all'altezza delle aspettative".
La scrittrice s'interroga anche sul rapporto arte/denaro. Scrivere per denaro equivale ad essere una prostituta? Cechov cominciò la sua carriera scrivendo per denaro, per aiutare la sua famiglia. Questo ha fatto di lui un autore ignobile? 
E che cos'è che fa di un romanzo un'opera d'arte? 
Molto interessante il quarto capitolo in cui è affrontata la relazione dell'arte con la morale.
Se un uomo uccide qualcuno è un assassino, ma se uno scrittore uccide qualcuno in un libro di che cosa si rende colpevole? e se il suo omicidio fittizio ispirasse qualcun altro a commetterne uno reale? 
Che l'autore lo voglia o no, dice la Atwood, non è possibile scrivere una storia senza alcuna implicazione morale. Perché una storia ha degli sviluppi e il lettore avrà le sue opinioni a riguardo e giudicherà quegli sviluppi giusti o sbagliati.
Secondo Oscar Wilde nessuno scrittore ha intenti morali, il vizio e la virtù sono per un artista semplicemente dei materiali. L'arte è completamente inutile, non deve porsi fini esterni ad essa.
Anche Flannery O'Connor si era posta il problema della responsabilità riguardo al turbare qualcuno con i propri libri, sostanzialmente assolvendo lo scrittore (vedi comunque la complessa concezione dell'artista in quanto scrittrice cattolica).
Può essere utile leggere quanto ha scritto Abraham Yehoshua in un libro di qualche tempo fa: Il potere terribile di una piccola colpa, Einaudi 2000, riguardo all'evoluzione morale del personaggio nell'ambito di un racconto o romanzo. 
Il titolo del libro di cui sto scrivendo:"Negoziando con le ombre", traduzione erronea (immagino volutamente) di "Negoziando con la morte", fa riferimento all'ultimo capitolo.
In quest'ultima parte la Atwood si interroga sul perché si scrive.
La risposta è: per affrontare la paura della morte.
Per far questo bisogna avere il coraggio di scendere agli Inferi e andare a prendere le storie dai morti. E infatti chiunque voglia scrivere dovrà scendere a patti con quelli, scrittori o no, che sono vissuti prima di lui.
Così lo scrittore potrà sopravvivere attraverso la sua opera, oppure potrà riportare in vita qualcuno che gli interessa (vedi Dante che secondo Borges scrisse la Divina Commedia per riportare in vita Beatrice), mettendone su carta il ricordo. 

t.s.          


Fatema Mernissi, L'harem e l'Occidente, Giunti, Firenze 2000. 


Fatema Mernissi ha sessanta anni, è una sociologa marocchina di fede islamica, insegna all'Università di Rabat, ed è molto impegnata nel promuovere i diritti delle donne islamiche e lo sviluppo di una società civile democratica e pluralista.
Riguardo alla questione femminile Mernissi propone una tesi paradossale: la donna occidentale è velata così come quella che vive nella società islamica.
Il suo velo è costituito dall'obbligo di mantenersi sempre giovane e magra. E' negato ogni valore alle doti di esperienza che sono proprie delle donne più grandi o al rifiuto di vivere il proprio corpo come mero strumento di seduzione dell'uomo.
Secondo Fatema l'uomo orientale rinchiudeva le donne nell'harem perché le considerava temibili avversarie. Oggi impone ad esse il velo per togliere loro visibilità e libertà di movimento, in modo che non possano rivaleggiare con lui nella gestione della vita pubblica.
Tuttavia oggi la donna nelle società islamiche sta facendo passi da gigante nel guadagnare libertà e lavoro, grazie ad Internet e alle TV satellitari che trasmettono la cultura del resto del mondo ( pensate ad Al Jazeera), ed alla capacità delle donne di apprendere le nuove tecnologie.
Il risultato è che nei paesi islamici il trenta per cento dei nuovi laureati e un terzo degli addetti a queste nuove tecnologie sono per l'appunto donne, superando addirittura alcuni paesi europei. 
Nel libro vengono quindi esaltati gli elementi di democratizzazione per la società islamica e di emancipazione per la donna, insiti nel processo di globalizzazione.
Secondo Mernissi, e qui viene ripresa la tesi paradossale di cui dicevamo sopra, l'uomo occidentale impone alla donna una violenza più subdola e sottile, in quanto non esiste uno spazio di reclusione visibile; qui la violenza agisce attraverso modelli imposti dai media: vedi la moda delle ragazze-velina o la scissione tra bella e scema/ brutta e intelligente.
Fatema ammette che l'harem era una prigione per la donna, lei stessa è nata in un harem, ma critica la visione che ne hanno gli occidentali come di un semplice luogo di sottomissione della donna e di piacere per l'uomo. 
La donna che viveva nell'harem, secondo Fatema, era forte colta e combattiva, e il suo modello era la Sherazade delle "Mille e una notte". 
Ma c'è di più: gli orientali apprezzano l' intelligenza in una donna, anzi per loro l'intelligenza è una forma di bellezza, la donna con la sua intelligenza eccita la mente dell'uomo, prima ancora dei sensi.
A me sembra che l' immagine dell'harem data dall'autrice sia molto idealizzata, considerando il fatto che la donna dell'harem era una prigioniera.
Per harem infatti s'intende una situazione familiare in cui la donna è relegata in una parte apposita della casa, con divieto di uscirne. 
Inoltre i diritti del marito e della moglie erano (non so come stiano le cose attualmente) ben diversi. La moglie poteva avere un solo marito, il marito invece fino a quattro mogli, oltre ad un numero imprecisato di concubine.
Il marito poteva ripudiare la moglie, la moglie aveva grandissime difficoltà a vedersi riconosciuto il divorzio. 
Anche per ereditare la donna non aveva gli stessi diritti dell'uomo. 
Se una donna veniva uccisa, il risarcimento finanziario che spettava ai parenti era la metà di quello che sarebbe spettato se fosse stata un uomo.
Per non parlare del fatto che in alcuni paesi islamici la pratica dell'harem è ancora vigente.
Io concordo con le critiche della Mernissi alla donna-oggetto occidentale; provo un fastidio sempre crescente quando in uno stesso spettacolo televisivo sono presenti uomini vestiti di tutto punto e ragazze in costume da bagno, sia pur ornato di strass.
E tuttavia mi pare diversa la situazione della donna occidentale, sia pur condizionata dai modelli simbolici imposti dai mass media. 
Da questi ultimi è sempre possibile distaccarsi, operando una presa di coscienza; ben diverso spezzare le catene anche fisiche dell'harem.

t.s.          



IVO ANDRIC, Il ponte sulla Drina, trad. di Bruno Meriggi, Mondadori Milano. (Johanna Preiswerk)

 

Ivo Andric' nacque nel 1892 nella Bosnia settentrionale da una famiglia cattolica di artigiani.

Il padre, morto precocemente, lasciò la famiglia in povertà. Nonostante ciò il giovane Ivo riuscì a terminare le scuole e ad iscriversi all'Università.
Seguì corsi di filosofia a Zagabria, Vienna e Cracovia.
Tornato in patria si iscrisse al movimento della gioventù del Kosovo entrando in contatto col gruppo che organizzò l'attentato all'arciduca Ferdinando d'Austria a Seraievo nel 1914.

Venne arrestato e in carcere cominciò a scrivere delle meditazioni liriche. Nel 1917 fu graziato, andò a vivere a Zagabria e, dopo aver ultimato gli studi all'università di Graz, fu diplomatico,al servizio del regno di Jugoslavia, in molte città europee.
Parallelamente svolse un'intensa attività letteraria, scrivendo novelle e racconti sulla gente e la storia della sua terra. Ottenne il premio Nobel nel 1961.

Il ponte sulla Drina è un racconto epico dedicato alla sua città di Visegrad. Presenta una galleria di personaggi e di episodi che abbracciano quasi cinque secoli di storia, dalla metà del XV secolo allo scoppio della prima guerra mondiale: evento che rappresentò la sparizione di un mondo e anche del ponte sulla Drina.

Il ponte fu voluto da  Mehmed Pascià Sokoli, che non avrebbe mai dimenticato il passaggio pericoloso attraverso il fiume quando, bambino, insieme ad altri bambini bosniaci e kosovari rapiti, fu strappato alla sua famiglia per essere istruito nelle armi e nelle scienze ad Istanbul.
Sarebbe poi diventato un grande generale e amministratore dell'impero ottomano.

L'architetto del ponte era il migliore dell'epoca, Tofun Efendija, un cristiano islamizzato di corporatura minuta, pallido e giallo, nato in una delle isole greche che, per ordine di Mehmed Pascià, aveva costruito molte opere pie a Istanbul.(cap. III, pag.37)

La costruzione del ponte che doveva congiungere le alte sponde del fiume impetuoso fu un lavoro tremendo e difficile, quasi disumano. La difficile opera approdò a buon fine soltanto quando, al posto dei lavori forzati, della tortura e dell'oppressione, un nuovo supervisore decise di usare metodi più umani concedendo agli operai cibo e denaro.

Il ponte, che congiungeva occidente ed oriente, divenne il simbolo della stabilità della vita comunitaria nel fluire del tempo: questo grande ponte di pietra, preziosa costruzione di singolare bellezza, quale non posseggono neppure cittadine assai più ricche e frequentate..., è infatti l'unico mezzo di comunicazione stabile e sicuro in tutto il medio ed alto corso della Drina e costituisce un anello indispensabile sulla strada che congiunge la Bosnia con la Serbia e, oltre la Serbia, più in là, con le rimanenti contrade dell'impero turco, fino a Istanbul.(cap.I, pag.16)

Il ponte era al centro della vita degli abitanti di Visegrad. Su di esso sbocciavano i primi amori, avvenivano gli incontri importanti, si svolgevano affari e litigi, si facevano accordi, si vendevano le primizie dei campi, si ritrovavano giovani e vecchi, ricchi e mendicanti.   Nel libro Andric' srotola il lungo libro della vita della cittadina di Visegrad con i suoi abitanti turchi, serbi, ebrei ed altri ancora, attraverso episodi tragici e comici: la galleria di personaggi che attraversa le quattrocento pagine del romanzo, è composta da umili e semplici, e l'autore racconta le loro storie con grande partecipazione; sullo sfondo guerre pestilenze e grandi cambiamenti epocali.

E' interessante l'uso del presente come tempo narrativo, quasi a voler significare che le vicende umane sono sempre le stesse attraverso i secoli.
Impressionanti sono le drammatiche storie di due suicidi: quella della giovane sposa Fata che si getta dal ponte durante il corteo nuziale (cap.VIII), e quella del giovane soldato ucraino sognatore innamorato di una ragazza turca che si rivela essere un pericoloso criminale fuggito grazie a questo travestimento (cap.XIII)

Nel corso dei secoli vediamo trasformarsi l'antico caravanserraglio in caserma per i soldati austriaci e poi nell'albergo dell'ebrea Lotika che da questo punto del mondo amministra la sua grande famiglia dispersa nell'impero asburgico.
Proprio attraverso le vicende dell'albergo di Lotika, assistiamo alle trasformazioni economiche e sociali della seconda metà dell'Ottocento.

Dopo la costruzione della ferrovia, il ponte sulla Drina perde la sua importanza come via di comunicazione, i passanti sono sempre di meno e ormai sono sorti altri locali per divertirsi, più moderni e a buon mercato. Nei primi anni del XX secolo la crisi economica e politica sconvolge anche la tranquillità di Visegrad e i giovani sognano l'America.
Per i vecchi invece, nulla sembra cambiato e proprio l'antico ponte ne è la prova. Ma arrivano i bombardamenti della prima guerra mondiale: il ponte, minato dagli austriaci salta in aria e Alihodza, il vecchio imano in un baleno ...rivede tutti gli anni in cui non hanno mai staccato le mani dal ponte, lo hanno pulito, lo hanno ritoccato, ne hanno rafforzato le fondamenta, vi hanno fatto passare l'acquedotto, vi hanno messo l'illuminazione elettrica, e poi un giorno hanno fatto saltare in aria tutto quanto, come si fosse trattato di una parete montana, e non di un'opera pia e di una meraviglia...

 



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